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Il perdono di Chum Mey, uno dei sette sopravvissuti al carcere dei khmer rossi che ne uccise 14mila
NEWS 22 Febbraio 2017    

Il perdono di Chum Mey, uno dei sette sopravvissuti al carcere dei khmer rossi che ne uccise 14mila

di Leone Grotti

 

Chum Mey non aveva mai sentito parlare della Cia, ma dopo 10 giorni di torture disumane non ha potuto fare altro che confessare di essere una spia degli Stati Uniti. L’uomo di 84 anni è uno dei sette sopravvissuti di Tuol Sleng, scuola di Phnom Penh, capitale della Cambogia, trasformata in prigione nel 1976 dai Khmer rossi di Pol Pot. Nel centro di detenzione, oggi trasformato in museo per non dimenticare il genocidio di almeno due milioni di persone, sono state torturate e uccise circa 14 mila persone in tre anni.

«MANGIAVO SCARAFAGGI». Quarant’anni dopo la sua detenzione, Chum Mey ricorda quello che ha dovuto passare: «Ero incatenato al pavimento in cella, con una benda sugli occhi. Non potevo parlare né vedere nessuno», racconta alla Bbc. «Ci davano da mangiare solo due cucchiai di porridge al giorno, uno la mattina e uno la sera. Ecco perché, quando vedevo scarafaggi, topi o lucertole entrare nella mia cella, li mangiavo per non morire di fame. Ma di nascosto, altrimenti le guardie mi avrebbero picchiato».

ARRESTATO SENZA MOTIVO. Chum Mey era un meccanico e lavorava per gli Khmer rossi quando è stato arrestato senza preavviso il 28 ottobre 1978. «Ancora oggi non so perché». Per dodici giorni è stato torturato tre volte al giorno. «Potevo sopportare il dolore delle percosse e delle unghie strappate, ma gli elettroshock comminati attraverso elettrodi dentro le orecchie erano insopportabili». Oggi l’uomo è sordo da un orecchio e ogni volta che gira il capo sente il rumore dell’acqua. «Quando mi torturavano così, ammettevo qualunque cosa. Non sapevo distinguere il giusto dallo sbagliato».

IL PERDONO. Se Chum Mey è ancora vivo è solo perché sapeva aggiustare le macchine da scrivere, necessarie per scrivere a tavolino le confessioni degli interrogati. Il regime di Pol Pot cadde prima che potessero ucciderlo. Oggi si reca ogni giorno al museo per non dimenticare e perché il male fatto non venga dimenticato. Ma sorride: «La gente non capisce perché. Lo faccio per non vedere i turisti piangere, altrimenti scoppio in lacrime anch’io». I suoi aguzzini li ha già perdonati: «Se quelle guardie non mi avessero torturato per estorcermi una falsa confessione, sarebbe stati giustiziati. Non posso garantire che al posto loro avrei agito diversamente».