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L’abito fa la monaca
NEWS 17 Febbraio 2018    di Giulia Tanel

L’abito fa la monaca

«All’inizio della Chiesa coloro che dedicarono le loro vite a Dio, indossarono un abito specifico che li distingueva dal mondo. […] Attraverso i secoli questo tipo di abbigliamento, vale a dire l’abito religioso, ha assunto molte forme nelle diverse comunità che Dio ha chiamato in essere. Negli ultimi sessant’anni il valore, la pertinenza e la necessità dell’abito sono stati contestati. Tuttavia, molti giovani con la vocazione alla vita religiosa sono attratti dalle comunità che indossano l’abito. È mia opinione che nel mondo di oggi questa testimonianza visibile dell’abito religioso sia ancora necessaria per proclamare silenziosamente, ma eloquentemente, la realtà, la presenza e il primato di Dio».

Scrive così, in maniera molto chiara, una sorella delle Suore mariane di Santa Rosa (California), che per i suoi studi presso la Pontifex University ha redatto un lungo saggio dal titolo Una testimonianza visibile, ripreso in forma pressoché integrale dal sito New Liturgical Movement.

Si tratta di un testo denso, che riprende e dettaglia il significato dell’abito per i religiosi proponendone altresì un excursus storico. Fin dal IV secolo, con il cenobita san Pacomio, si hanno – scrive la sorella – i primi riferimenti circa l’importanza di vestire l’abito monastico. Importanza ribadita anche nella Regola di san Benedetto e negli scritti di San Giovanni Cassiano e di Sant’Agostino, il quale, oltre a fare riferimento all’abbandono del mondo (per questo veniva spesso usato il colore nero), sottolinea l’aspetto della semplicità, della povertà e dell’uguaglianza tra coloro che decidono di incamminarsi nella vita religiosa.

Un dato, quello dell’abito, che nelle vergini è ulteriormente arricchito dalla presenza del velo: segno chiaro di consacrazione a Cristo, il Divino Sposo, e che fin dai tempi di Sant’Ambrogio viene conferito durante una particolare cerimonia.

Naturalmente, prosegue nel suo scritto la sorella, nel corso dei secoli gli abiti sono cambiati, si sono stati arricchiti (si pensi allo scapolare per i domenicani e per i carmelitani) e si sono maggiormente differenziati tra i vari ordini, a seconda del carisma.

Tutto questo fino agli anni Cinquanta, che hanno segnato una sorta di rottura nel modo di concepire l’abito, e dunque di indossarlo, da parte di alcuni ordini religiosi. Infatti, sull’onda dell’intento apparentemente buono di “soddisfare le esigenze attuali”, alcune comunità sono addirittura arrivare a dismettere la veste religiosa. Un eccesso, questo, che è stato ripreso dalla Chiesa e che trova un chiaro riscontro nel Codice di Diritto Canonico, laddove si afferma: «I religiosi devono indossare l’abito dell’istituto, fatto secondo la norma della legge propria, come segno della loro consacrazione e come testimonianza di povertà» (669, §1).

Tuttavia, come spesso accade, è sempre più facile aprire spiragli verso il lassismo piuttosto che percorrere la via più dura del rigore – non fine a se stesso – e di una donazione totale al Signore, quindi anche oggi è frequente incontrare religiose/i e sacerdoti vestiti come laici, praticamente indistinguibili dalla massa: si perde così un chiaro segno di testimonianza e forse tante opportunità di evangelizzazione.


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