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Motu proprio sulla traduzione dei libri liturgici: cosa cambia veramente e perchè
NEWS 14 Settembre 2017    

Motu proprio sulla traduzione dei libri liturgici: cosa cambia veramente e perchè

da La Nuova BQ

di Riccardo Barile OP

 

“Magnum principium” è l’inizio della Lettera Apostolica in forma di motu proprio con la quale viene modificato il can. 838 del Codice di Diritto Canonico, data dal Romano Pontefice Francesco il 3 settembre e le disposizioni della quale entreranno in vigore il 1° ottobre. Tratta delle traduzioni e degli adattamenti liturgici. Nell’edizione ufficiale il motu proprio è accompagnato da una nota sulle fonti del can. 838 e da una successiva nota per “Una chiave di lettura” del segretario della Congregazione per il culto divino.

Se tramite il sito vaticano un cristiano medio accede ai testi, si troverà sommerso da rimandi a documenti e precisazioni giuridiche e verbali da rimanerne sconcertato come Renzo di fronte al latinorum di don Abbondio o alle grida maneggiate dal dottor Azzeccagarbugli.

Cerchiamo di semplificare. In liturgia dopo il Vaticano II sono avvenute tra le altre due operazioni: le traduzioni dei testi e alcuni adattamenti, cioè qualche testo nuovo nei vari Messali linguistici o qualche adattamento di certi riti. Ad esempio il Messale attuale italiano ha dei Prefazi di nuova composizione che non sono tradotti dal Messale tipico latino, oppure prevede la possibilità di più monizioni prima del Padre nostro mentre il Messale latino ne prevede una sola. Queste operazioni hanno anche instaurato un certo tipo di rapporto tra le Conferenze Episcopali e la Santa Sede per via della debita approvazione di traduzioni e modifiche, un rapporto che a volte ha registrato delle tensioni. Comunque il procedimento è stato regolamentato da vari documenti ed è confluito nel Diritto Canonico, appunto nel canone 838.

Ora tale canone viene riformato perché «alcuni principi trasmessi fin dal tempo del Concilio siano più chiaramente riaffermati e messi in pratica». La frase lascia intendere che nel frattempo qualcosa non ha funzionato o c’è stata qualche confusione. Dove e come? Per rispondere alla domanda è opportuno conoscere di prima mano il canone 838 mettendo in evidenza le relative correzioni (in sottolineato le novità aggiunte, in corsivo le frasi eliminate).

«Can. 838 – § 1. Regolare la sacra liturgia dipende unicamente dall’autorità della Chiesa: ciò compete propriamente alla Sede Apostolica e, a norma del diritto, al Vescovo diocesano» (il paragrafo non ha subito variazioni).

«§ 2. È di competenza della Sede Apostolica ordinare la sacra liturgia della Chiesa universale, pubblicare i libri liturgici [e autorizzarne le versioni nelle lingue correnti], rivedere (recognoscere) gli adattamenti approvati a norma del diritto dalla Conferenza Episcopale, nonché vigilare perché le norme liturgiche siano osservate fedelmente ovunque» (variazione importante).

«§ 3. Spetta alle Conferenze Episcopali preparare fedelmente le versioni dei libri liturgici nelle lingue correnti, dopo averle adattate convenientemente entro i limiti definiti negli stessi libri liturgici [e pubblicarle, previa autorizzazione della Santa Sede.], approvarle e pubblicare i libri liturgici, per le regioni di loro pertinenza, dopo la conferma (post confirmationem) della Sede Apostolica» (variazione importante; si noti anche l’aggiunta di “fedelmente”).

«§ 4. Al Vescovo diocesano nella Chiesa a lui affidata spetta, entro i limiti della sua competenza, dare norme in materia liturgica, alle quali tutti sono tenuti» (il paragrafo non ha subito variazioni).

Quale è il senso delle modifiche? Dopo il Vaticano II c’è stato un ondeggiamento di terminologia tra “recognoscere” e “confirmare” applicati a volte a materie diverse e tradotti diversamente in italiano con “rivedere, confermare, approvare” ecc. (ondeggiamento minuziosamente documentato nelle note allegate al motu proprio). Ora invece si affina la terminologia secondo la mens originaria del Vaticano II, precisando di conseguenza anche il rapporto tra la Santa Sede e le Conferenze Episcopali.

Mentre infatti prima tutte le operazioni di traduzione e di adattamento esigevano la recognitio/revisione della Santa Sede, ora si distingue da una parte tra traduzioni e adattamento e dall’altra parte tra confirmatio/conferma e recognitio/revisione, per cui:

le traduzioni dei testi liturgici del Messale latino sono lasciate alla responsabilità delle Conferenze Episcopali e avranno bisogno solo di una confirmatio/conferma della Santa Sede per essere promulgate. Ciò significa una maggior autonomia delle Conferenze Episcopali e un controllo meno minuzioso della Santa Sede, se non per alcuni testi importanti quali le preghiere eucaristiche, le formule decisive sacramentali o poco altro ancora;

invece per gli adattamenti, cioè i nuovi testi, i nuovi riti o le modifiche dei riti esistenti per adattarli a una determinata cultura, è richiesta la recognitio/revisione della Santa Sede. La recognitio, come precisato il 28.4.2006 dall’autorità competente, «non è una generica o sommaria approvazione e tanto meno una semplice “autorizzazione”. Si tratta, invece, di un esame o revisione attenta e dettagliata». È naturale e prudente che Roma vigili su queste “novità”, che novità non dovrebbero essere in modo assoluto, ma un nuovo modo di esprimere la tradizione.

Come valutare il tutto? Quale riflusso avrà il motu proprio nella vita liturgica della Chiesa?

1. Si è raggiunta una maggior precisione, chiarezza terminologica e fedeltà rispetto a certi testi della costituzione liturgica Sacrosanctum concilium soprattutto in relazione ai Vescovi e alle Conferenze Episcopali, ai quali con terminologia e scelte fluttuanti veniva riconosciuta nella sostanza più iniziativa e più autonomia di quanto ne riconoscesse il precedente can. 838. Infatti in SC, quanto alla lingua, l’uso e l’estensione del volgare spettava ai Vescovi con la conferma della Sede Apostolica, ma tradurre e approvare le traduzioni spettava ai soli Vescovi (SC 36, § 3-4), anche se altrove per i rituali dei sacramenti si richiedeva la “revisione” della Sede Apostolica (SC 63; l’adattamento culturale dei riti parte dai Vescovi, aveva bisogno del “consenso” della Sede Apostolica, ma questa poteva autorizzare i Vescovi a permettere e dirigere “esperimenti preliminari” (SC 40). La nuova formulazione del motu proprio cerca di riformulare il tutto con più chiarezza. Va anche considerato che le lingue liturgiche sono tante e non sempre a Roma è possibile revisionare i testi come si revisiona l’italiano, il francese, l’inglese ecc. In ogni caso non è stata lasciata una totale autonomia alle Conferenze Episcopali, prevedendo di norma «una costante collaborazione piena di fiducia reciproca» tra queste e la Congregazione per il Culto Divino.

2. Non sono stati messi in discussione i principi delle traduzioni e degli adattamenti, anzi si è ribadito che il senso originale deve essere reso «pienamente e fedelmente / mantenendo l’integrità e l’accurata fedeltà / congruente con la sana dottrina»; i libri liturgici tradotti «anche dopo gli adattamenti, sempre rifulgano per l’unità del Rito Romano».

3. In sostanza il motu proprio sembra introdurre una buona disciplina, che dovrebbe fugare i sospetti di una certa dietrologia di chi sa quale colpo di mano, dal momento che la supervisione romana resta in ogni caso assicurata.

4. Non bisogna tuttavia illudersi che le buone traduzioni e i buoni adattamenti si ottengano solo con le leggi, dal momento che siamo in una materia con larghi margini opzionali, dove il risultato finale dipenderà sempre in gran parte dall’incontro tra chi sta davanti con chi sta dietro allo sportello e in questo incontro spesso capita quanto Giovanni Giolitti († 1928) cinicamente ma realisticamente sentenziava: «Per i nemici le leggi si applicano, per gli amici si interpretano». La vera soluzione è la diffusione di uno spirito nuovo, attento alla tradizione, attento al mondo ma non mondano, uno spirito fatto sorgere dallo Spirito Santo, e allora ci saranno buone traduzioni e buoni adattamenti.

5. In Italia sembra che per ora si ponga solo il problema di una revisione delle traduzioni o della conferma di alcuni (pochi) testi nuovi, ma non di radicali adattamenti ai riti, essendo di fatto la liturgia italiana quella “romana” per eccellenza (Milano a parte).

“In cauda venenum”, dicevano gli antichi, e se non proprio veleno, almeno è inevitabile in coda una puntura di spillo. A meno da un mese dal pronunciamento sulla “irreversibilità” della riforma liturgica, si è ritoccato qualcosa, per cui la domanda è: ma che cosa è irreversibile e che cosa non lo è? La risposta sembra essere: è irreversibile il testo del Concilio, che qui è stato recuperato con maggior fedeltà. Benissimo.

Ma SC 36 § 1-2 dice che «l’uso della lingua latina (…) sia conservato nei riti latini» e per motivi pastorali ritiene utile l’uso della lingua volgare «specialmente nelle letture e nelle monizioni, in alcune preghiere e canti»: ora ciò comporterebbe un uso maggiore del latino nella liturgia attuale. Perché non riabilitare anche questo numero della SC invece di prevedere delle traduzioni di tutto? Ma se così non è, allora la risposta è che “irreversibile” non è il testo, ma lo “spirito del Concilio” e qui potrebbero cominciare i guai perché lo “spirito del Concilio” ognuno lo cucina a suo modo e, se e quando può, lo impone agli altri.

Non intendo proseguire su questa strada e affermo che il motu proprio mi va più che bene. Soltanto, dopo tanto parlare di traduzioni, sarebbe auspicabile una qualche maggior diffusione della messa in latino del Messale di Paolo VI, almeno alcune parti ogni tanto come la preghiera eucaristica o almeno per alcuni gruppi di fedeli più sensibili a questi valori. Il che risulterebbe un utile complemento al fervore delle traduzioni e degli adattamenti e formerebbe una mentalità tradizionale moderna e non legata soltanto alla forma straordinaria del rito romano. Per ora è un discorso al quale pochi sono sensibili, purtroppo: «…mah! Sogni di là da venire!», come sospiravano le due adolescenti in “L’amica di nonna Speranza” di Guido Gozzano.