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Noi volontari cristiani in lotta con l’Isis: «Non lasceremo questa terra. Preghiamo combattendo»
NEWS 11 Dicembre 2014    

Noi volontari cristiani in lotta con l’Isis: «Non lasceremo questa terra. Preghiamo combattendo»

di Riccardo Bicicchi

 

Dwekh Nawsha si traduce più o meno con votati al sacrificio. Sono duecento volontari, tutti cristiani, per la maggior parte di rito assiro, uno dei gruppi che compongono il variegato mosaico di una cristianità dalle radici antichissime. Tre mesi fa erano solo una quarantina, tutti Assiri, adesso ci sono Caldei, Siriaci e Ortodossi, di fronte alla minaccia. «Non stiamo solo a pregare come pensa la gente fuori da qui, noi preghiamo e combattiamo, questa è la nostra terra e dobbiamo proteggerla dai terroristi», dice Nael, poco più di vent’anni, sul petto della mimetica l’emblema bianco con la croce al centro e i raggi in rosso e blu, un simbolo che sa di antico, non fosse per i due Kalashnikov incrociati, segno dei tempi che tutti loro si trovano ad affrontare. Sono a Duhok, capoluogo del Kurdistan occidentale, a metà strada tra Mosul – l’antica Ninive in mano alle bandiere nere -, ed il confine con Siria e Turchia, nel loro quartier generale, un grande appartamento al piano terra che è qualcosa di mezzo tra un ufficio ed un magazzino di armi.

Sono quasi tutti giovani tra i venti e i trent’anni, ben armati ed equipaggiati, comandati da ufficiali più anziani, gente che parla poco volentieri ma si vede che conosce bene la guerra, come il Capitano Odesho, sui sessant’anni, gli occhiali cerchiati di metallo, parla un discreto inglese. Non ha bisogno di gridare, esercita un forte ascendente sui suoi soldati, tutti ne parlano come di un uomo che sa il fatto suo. «Sono stato per dodici anni ufficiale nelle forze speciali, ai tempi di Saddam, ho fatto tutta la guerra con l’Iran», dice, «questi ragazzi sono come figli per me».

I suoi raccontano che in quegli otto anni di guerra ha rimediato parecchie ferite. I pick up scoperti partono alla volta del settore del fronte assegnato alla loro unità, nel villaggio di Baqofa, l’ultima località a nord di Mosul controllata dalle forze Peshmerga, cui i volontari sono aggregati. In questa guerra a bassa intensità, fatta di piccoli gruppi in movimento su mezzi spesso di fortuna più che di reggimenti o divisioni, la gente va in linea alla spicciolata: tutti salutano lungo la strada con colpi di clacson e braccia alzate.

Il fronte è ad una decina di chilometri a nord di Mosul, dalle linee dell’Isis ci sono solo un paio di chilometri di terra di nessuno, regno dei cecchini di entrambi gli schieramenti, in più non ci sono ostacoli naturali, e di notte si accendono sparatorie e tentativi di colpi di mano. Sopra il rombo costante dei jet, che bombardano le postazioni delle bandiere nere a quattro o cinque chilometri da qui. I ragazzi vengono tutti quanti da Mosul e dalle città cristiane intorno, indicano le luci e i bagliori dei vari luoghi, solo Batnaya, nelle mani dell’Isis, è oscurata, tranne un minuscolo puntino luminoso. «Come abbiamo ripreso Tel’skuf e Baqofa, riprenderemo Batnaya e anche Mosul, aspettiamo che cominci l’offensiva».

Se ne sente parlare molto di questo attacco imminente, ma nei giorni trascorsi lungo il fronte sono gli jihadisti ad attaccare continuamente dopo il tramonto, piccole azioni per lo più, ma la tensione rimane alta. Al mattino l’ingresso a Baqofa: i miliziani cristiani vogliono andare a vedere in che condizioni è il piccolo monastero da cui le suore sono dovute scappare quando il villaggio è stato preso dall’Isis, durante l’offensiva dell’estate. Le bandiere nere non si sono acquartierate tra queste povere case, preferendo la vicina cittadina di Tel’skuf, dove la chiesa è stata pesantemente devastata, le immagini sacre coperte da drappi neri, mentre qui per fortuna i danni sono molto limitati, solo qualche sfregio qua e là.

Una croce gettata a terra con un braccio spezzato: uno dei ragazzi si dà da fare per ricomporla. Negli armadi aperti e rovistati trovano molti testi antichi, anche manoscritti in lingua assira, il Capitano li esamina e ne legge qualche passo. C’è il tempo per una breve preghiera, poi un soldato si arrampica sul piccolo campanile e fa suonare ancora la campana, a lungo, in un silenzio irreale. Nessuno parla, si fanno il segno della croce. «E’ per questo che siamo qui, vogliamo restituire alla cristianità la piana di Ninive, le nostre speranze sono qui, non lasceremo questa terra senza combattere… siamo dei buoni combattenti, sai?».