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Perchè la teoria della relatività  di Einstein non c’entra con il relativismo. Semmai con l’Assoluto
NEWS 20 Aprile 2015    

Perchè la teoria della relatività di Einstein non c’entra con il relativismo. Semmai con l’Assoluto

di Francesco Agnoli

 

A sessant’anni dalla morte di Albert Einstein è impossibile non ricordare l’opera di questo fisico ebreo tedesco che 110 anni fa, precisamente nel 1905, con 5 articoli inviati ad una rivista tedesca, pose “le basi della relatività ristretta, della teoria atomica e della meccanica quantistica”, vere “pietre miliari della fisica di tutti i tempi” (Paolo Musso, La scienza e l’idea di ragione. Scienza, filosofia e religione da Galileo ai buchi neri e oltre, Mimesis, 2001, p. 263: si tratta di un libro imperdibile per gli appassionati di filosofia e storia della scienza). Cosa sia questa benedetta relatività, fu per molti assai difficile comprenderlo, per parecchio tempo.

Ancora oggi non pochi sono convinti che essa faccia rima con relativismo, quando al contrario “la relatività non è affatto una teoria del relativo, ma piuttosto dell’assoluto. Infatti la relativizzazione dello spazio e del tempo […] da cui essa ha preso il nome fu solo il prezzo che si dovette pagare per giungere ad una ben più fondamentale unificazione, dimostrando l’invarianza (cioè, appunto, l’assolutezza) delle leggi di natura per tutti i fenomeni e per tutti i sistemi di riferimento” (p. 264). Esulando dai compiti di questo articolo, e dalle competenze di chi scrive, illustrare concetti di fisica, basti almeno riassumere il tutto con tre celebri immagini: secondo la relatività gli orologi in movimento rallentano e i righelli si accorciano, mentre gli oggetti in movimento acquistano una massa più grande e, avvicinandosi alla velocità della luce, diventano tanto massicci che non è più possibile accelerarli. Spazio e tempo, con Einstein, non sono più distinti, ma sono due grandezze intimamente connesse: lo spazio-tempo. A ciò si aggiunga l’implicazione più carica di conseguenze della relatività: l’equivalenza di massa e di energia, secondo la celeberrima formula E=mc2. In altre parole la commutabilità della materia in energia e viceversa.

Ma al di là delle questione puramente fisiche, quali sono le implicazioni filosofiche delle scoperte di Einstein? Ce lo si deve chiedere per più motivi: il primo dei quali è la passione che Einstein stesso aveva per le meditazioni che vanno oltre la fisica stessa. Il secondo motivo è anche storico: sia gli ideologi nazisti che quelli comunisti condannarono aspramente la fisica di Einstein, accusandola di essere una “fisica ebraica” i primi, una fisica non materialista, “borghese”, i secondi. L’attacco, in Germania, arrivò anche da premi Nobel per la fisica come Johannes Stark, mentre nell’Urss ad Einstein “veniva rimproverato il fatto che la sua teoria «generava un universo assurdo con un’origine ben definita, troppo simile al punto di vista religioso» che il pensiero sovietico era tanto smanioso di «estirpare dalla società». Non aiutava certo il fatto che uno dei principali diffusori delle teorie di Einstein fosse un sacerdote, Georges Lemaître, uno «straniero corrotto appartenente a una società borghese decadente e agonizzante»” (Paolo Mieli, Corriere della sera, 2/9/2014).

Insomma, sia il panteismo materialista nazista, sia il materialismo comunista, videro nelle teorie di Einstein un problema di ordine filosofico. Ci viene in aiuto il filosofo della scienza, già citato, Paolo Musso: “In virtù di E=mc2 la relatività prevede che la materia possa trasformarsi in energia e viceversa, cosa che in effetti è stata verificata milioni e milioni di volte […] La trasformazione è qui così radicale che non può più in alcun modo essere spiegata in termini di aggregazione di particelle più semplici, il che implica che si tratti di un’ autentica trasformazione, irriducibile a qualsiasi spiegazione di tipo meccanicista. Con ciò dunque la relatività aveva tolto di mezzo i due elementi fondamentali del meccanicismo: lo spazio inerte e la trasformazione per aggregazione e divisione. E con essi cadeva anche il primo principio fondamentale del meccanicismo stesso: il riduzionismo, e cioè la pretesa che ogni oggetto complesso si possa spiegare esaurientemente come somma delle sue parti” (p. 347). Che questo fosse chiaro ad Einstein fin dall’inizio può essere suggerito dalla presentazione che egli scrisse nel 1923 dell’opera del poeta latino Lucrezio, il massimo divulgatore dell’atomismo ateo di Epicuro, da lui definito “provvisto di immaginazione e intelligenza fervide, ma che non ha la minima idea neppure delle nozioni di fisica che s’insegnano ai bambini”. Più tardi, nel 1938, nel famoso libro L’evoluzione della fisica scritto a quattro mani con Leopold Infeld, sarà ancor più esplicito: “Ed invero la scienza non è pervenuta ad attuare il programma meccanicistico in modo convincente. Oggidì nessun fisico crede più che ciò sia possibile” (p. 130).

Inoltre, l'affermazione di Einstein di uno spazio-tempo relativo, impossibile senza l’esistenza dei corpi, riporta ad un concetto: non si dà spazio (né tempo) senza materia. In altre parole: la dottrina materialista di Democrito – secondo la quale “opinione il dolce, opinione l'amaro, opinione il caldo, opinione il freddo, opinione il colore: in realtà soltanto gli atomi e lo spazio vuoto”-, entra in crisi laddove non è più possibile ipotizzare uno spazio vuoto eterno che sia puro contenitore di infiniti atomi, anch’essi eterni. Questo tanto più se affianchiamo la relatività di Einstein con l’idea del Big Bang, promossa dal già citato Lemaître, e anch’essa avversata dai sovietici materialisti dell’epoca perché riduce la materia ad un “atomo primordiale”, e lo spazio a ciò che si genera attraverso l’espansione dell’atomo primordiale stesso (se pensiamo poi all’atomo primordiale, alla sua energia e semplicità, appare ancora più chiara l’incompatibilità con l’atomismo classico, che produce il complesso dalla somma dei semplici, gli atomi, laddove il Big Bang rappresenta la massima semplicità iniziale come origine della complessità dell’universo).

Un ultimo interessante corollario filosofico: la relatività non solo annulla uno spazio assoluto, ma, tanto più se coordinata con l’ipotesi del Big Bang, riporta ad una concezione del tempo che non può non ricordare quella di Sant’Agostino. Per il grande teologo africano, infatti, tempo (e spazio) sono relativi, in quanto creati insieme al cielo e alla terra. Come per Agostino non aveva senso chiedersi cosa facesse Dio prima di creare l’universo, essendo il tempo stesso nato con l’universo, così oggi non ha senso chiedersi cosa ci fosse prima del Big Bang, coincidendo il Big Bang con il venire all’essere del tempo (e dello spazio). Scrive il fisico della Royal Society e teologo britannico John Charlton Polkinghorne nel suo Credere in Dio nell’età della scienza: “Si potrebbe inoltre sottolineare come l’intuizione di Agostino secondo cui Dio avrebbe creato il mondo cum tempore e non in tempore abbia ricevuto una convalida teologica quindici secoli più tardi, quando spazio, tempo e materia sono stati riuniti nella teoria della relatività generale che li vede nascere insieme alla singolarità del Big Bang”.

Analizzati brevemente questi concetti, potremmo farci mille domande su un uomo che ha segnato così a fondo l’immaginario collettivo. Ci aiuterebbero a calare un grande genio, nella storia e non nella leggenda e nel mito, come sovente accade. Dal punto di vista umano, infatti, che tipo fosse Einstein è difficile dirlo: il suo rapporto con mogli, figli e studenti non restituisce un ritratto sempre esemplare e simpatico. Anche dal punto di vista scientifico prese, più volte, come è normale, le sue cantonate. Ad esempio nelle sue discussioni con l’amico Lemaître: si oppose infatti, in più occasioni, all’espansione dell’universo, ed al Big Bang stesso, per pregiudizi di natura filosofica. Ma seppe anche, con grande intelligenza e onestà intellettuale, riconoscere il proprio errore (Francesco Agnoli, Evoluzione e creazione. Dalla geologia alla cosmologia, Cantagalli, 2015).

Quanto all’Einstein filosofo e “teologo”, si potrebbero dire molte cose. La prima, è senza dubbio questa: Einstein usava spessissimo espressioni che contenevano parole per nulla neutre e casuali, specie per uno scienziato. Questo anche quando sapeva che avrebbe potuto urtare l’interlocutore. Mi riferisco a parole quali “Dio”, “miracolo”, “creazione”, “senso religioso”, “mistero”… In realtà non poteva non usarle, sia perché aveva frequentato una scuola cattolica, sia per la sua conoscenza, almeno basilare, della Bibbia; sia infine perché la fisica lo portava sempre, irresistibilmente, ad andare oltre. Del resto era il suo amico e mentore, il premio Nobel Max Planck, ad affermare: “Non è certo un caso che proprio i massimi pensatori di tutti i tempi siano stati anche nature profondamente religiose, benché non svelassero volentieri il sacrario delle loro anime”.

Il fatto però è che il pensiero filosofico di Einstein non fu affatto sistematico, né logicamente esemplare e coerente. Per questo le sue frasi potrebbero essere tirate da una parte o dall’altra. In verità Einstein si pronunciò spesso su cose che non conosceva bene, e cambiò opinione nel corso del tempo, almeno riguardo ad alcune idee. In particolare si possono distinguere due fasi: una prima fase, quella ante 1934, più, diciamo così, “religiosamente eterodossa”; e una seconda fase, più disponibile a valorizzare anche la Chiesa e la Bibbia, dopo il 1934, cioè quando l’ascesa del nazismo chiarì ad Einstein il legame tra le tenebre della sua epoca e l’abbandono dei valori biblici e cristiani. Nella prima fase possiamo trovare frasi come questa: “È certo che alla base di ogni lavoro scientifico un po' delicato si trova la convinzione, analoga al sentimento religioso, che il mondo è fondato sulla ragione e può essere compreso. Questa convinzione legata al sentimento profondo dell'esistenza di una mente superiore che si manifesta nel mondo dell'esperienza, costituisce per me l'idea di Dio; in linguaggio corrente si può chiamarla "panteismo" (Spinoza, Come io vedo il mondo).

Nella seconda fase, invece, affermazioni del genere: “I più alti principi su cui si fondano le nostre aspirazioni e i nostri giudizi ci vengono dalla tradizione religiosa giudaico-cristiana… Non c’è spazio in tutto ciò per la divinizzazione di una nazione, di una classe, e meno che mai di un individuo. Non siamo tutti figli di uno stesso padre, come si dice in linguaggio religioso?… L’unione di queste due forze (Bibbia e filosofia greca, ndr) così differenti l’una dall’altra contrassegna l’inizio della nostra epoca culturale e da quell’unione, direttamente o indirettamente, è scaturito tutto ciò che informa i veri valori della vita dei nostri giorni… la nostra lotta per preservare tali tesori contro le attuali forze della tenebra e della barbarie non potrà allora che dirsi vincente… Noi ebrei dovremmo essere e rimanere portatori e difensori dei valori spirituali…” (Pensieri, idee, opinioni).  Una cosa, infine, è certa: Einstein professò per lo più la fede non in un Dio personale, ma in una sorta di Dio sovrapersonale, in una non ben definita Intelligenza ordinatrice del cosmo, e fu spesso piuttosto duro con coloro che vantavano di essere atei, definendoli “fanatici”, “creature che non riescono a sentire la musica delle sfere” (Walter Isaacson, Einstein)

Nel 1940, dopo che anche nella sua partenza dalla Germania, aveva trovato accoglienza e aiuto in Belgio, anche grazie a già citato Lemaître, ebbe a dichiarare al Time: “Solo la Chiesa ha fatto quadrato sul percorso della campagna di Hitler per la soppressione della verità. Non ho mai avuto in precedenza un interesse particolare per la Chiesa, ma ora sento verso di essa una grande ammirazione, poiché la Chiesa sola ha avuto il coraggio e la perseveranza per difendere la verità intellettuale e la libertà morale. Mi trovo quindi costretto a confessare: ciò che io un tempo disprezzavo, ora io lodo senza riserve”( M. Burleigh, In nome di Dio, Rizzoli, Milano, 2007, p. 249).