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Vatileaks 2, considerazioni a freddo su corvi, curia e la differenza tra proclami e difficile arte di governare
NEWS 4 Novembre 2015    

Vatileaks 2, considerazioni a freddo su corvi, curia e la differenza tra proclami e difficile arte di governare

di Marco Tosatti

 

Aspettiamo tutti con ansia e curiosità l’uscita dei due libri che ci riveleranno antichi e ahimé sempre rinnovellantisi peccati di avidità di prelati e uomini di chiesa. Niente di nuovo, da Giuda e dagli Atti degli Apostoli in poi, ma fa sempre colpo. 

Anche se da quello che appare, chiamarlo complotto sembra esagerato; una fuga di documenti, per motivi che possono essere giornalisticamente comprensibili, o anche economicamente interessanti (pensate ai diritti d’autore) non mi sembra possa assurgere a tanta altezza.  

Un paio di cose sono interessanti. La prima è che il responsabile, o i responsabili siano stati tanto maldestri da farsi beccare. Dai tempi di Vatileaks, e ancora di più con il pontificato di papa Francesco, non c’è nessuno che dica cose possibilmente compromettenti sui telefoni della linea vaticana; e anche sulla mail c’è chi sostiene che sia prudente essere prudenti. 

La seconda è la risposta, molto severa, verso i presunti responsabili. Perché? Per avere violato la riservatezza di documenti e colloqui, giustamente; ma forse anche per aver messo in luce che uno dei punti cardine della riforma è partito in una certa direzione, ed è approdato in un’altra. 

Se non ricordiamo male, nel suo primo documento istitutivo della Segreteria per l’Economia papa Francesco affidava alla nuova istituzione l’intero comparto finanziario, e la gestione dei dipendenti. Proprio per chiarire una volta per tutte, e per evitare per il futuro zone d’ombra e orti chiusi. Per questo scopo ha chiamato il cardinale Pell da Sydney. Che ha cercato di svolgere quello che era il compito affidatogli dal Papa. 

Ma Pell piano piano ha visto ridurre gradualmente quelli che erano i suoi poteri. Così Propaganda Fide – che ha un bilancio autonomo superiore al bilancio della Santa Sede, compreso un patrimonio immobiliare riguardevole, a Roma e fuori – continua a essere autonoma. Così la Segreteria di Stato, la cui sezione economica è uno dei misteri meglio custoditi del Vaticano (c’è chi dice che abbia un tesoretto superiore a quello dello IOR) dopo un non breve braccio di ferro ha convinto il Papa a far restare le cose come sono. Così l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (Apsa) ha ottenuto, sempre dal Papa, di mantenere la gestione del patrimonio, in particolare immobiliare. E la Segreteria per l’Economia e le Finanze, a cui inizialmente doveva essere affidata anche la gestione del personale, Segreteria di Stato compresa, quindi nunzi e ambasciate (ma anche questa è rimasta dove era) è conformata adesso per un compito di coordinazione e controllo in buona misura a posteriori. 

C’è da chiedersi perché. E le risposte possono essere almeno due: o c’è stata avventatezza all’inizio, nell’immaginare una riforma troppo tranciante e accentratrice, che forse non teneva abbastanza conto di realtà complesse. Oppure non c’è sufficiente volontà e capacità di fare seguito con i fatti a grandi dichiarazioni di principio. 

Ma attenti: nessuno dei protagonisti di questa “resistenza” alla prima volontà di riforma economica può essere identificato fra gli oppositori del Papa, quelli che nel recente Sinodo sono stati identificati come gli abietti conservatori. Anzi: quello che più si è battuto per realizzare il contenuto del primo documento del Papa è proprio George Pell, l’australiano co-firmatario della famosa lettera dei cardinali al Papa sul Sinodo. E che è stato vittima, durante questa battaglia, di attacchi velenosi a mezzo stampa. 

Ma se sono quelli che hanno votato Bergoglio in Conclave, e quelli che sono considerati suoi amici, dividendo anche la mensa con lui, a impedire la riforma dell’economia come l’aveva disegnata all’inizio, dove è l’errore?