Paternità spirituale del card. Giuseppe Siri. Lettere personali ai suoi sacerdoti (1946-1987), edito da Cantagalli nel trentacinquesimo anniversario del dies natalis del Presule, è già alla sua prima ristampa. Il libro, a cura di Giulio Venturini con la collaborazione di Carlo Sobrero, raccoglie parte dell’epistolario dell’Arcivescovo ai suoi presbiteri. È stato voluto fortemente da mons. Mario Grone – storico segretario del Cardinale, il quale è riuscito solo a vederne le bozze –, perché «i testi che compongono questo libro rivelano la premura del Vescovo per i suoi preti, la sua delicatezza, la sua paternità, la sua profonda conoscenza delle anime e delle situazioni. Tali lettere sono edificanti per tutti: mostrano intelligenza, intensa spiritualità, animo pastorale unito a grande pazienza» (p. 5).
A conferma, quello che traspare dagli scritti raccolti è il richiamo a una necessaria paternità spirituale da parte del Vescovo di cui oggi, per mancanza di punti di riferimento, si avverte un immenso bisogno: «Nel mondo dello spirito essere “padri” – scrive nella Prefazione mons. Marco Tasca, attuale arcivescovo di Genova – significa lasciar agire dentro di noi la grazia nelle diverse tipologie di rapporto che la vita ci chiede di coltivare. Nel rapporto con il dolore e le paure, la paternità si manifesta nell’affrontare con coraggio ciò che di spiacevole o sgradito si annida nel cuore, uscendone rafforzati e diventando un riferimento per gli altri» (p. 11). Nella prima lettera pubblicata, con la sua elegante grafia, il cardinal Siri rivendica questo compito: «Mi considero erede e custode della paternità di tutta la Diocesi». Una corrispondenza che, presa insieme, consente di conoscere anche l’animo di Sua Eminenza e la testimonianza della sua stima per i confratelli a lui affidati. Egli ripeteva sovente: «Il mio clero è buono ed ubbidiente». Nella Nota redazionale si osserva come il notevole scambio epistolare fosse gestito dal solo Cardinale: dattilografava personalmente le lettere e ne conservava una copia.
Se aveva dubbi su qualche passaggio, lo rileggeva il giorno seguente e, quando riteneva inopportuna qualche espressione usata, riscriveva completamente la lettera mantenendo nel suo archivio entrambe le copie (con la dicitura “spedita” e “non spedita”). Da qui, risulta come Siri avesse piena contezza e personale conoscenza dei suoi sacerdoti. Questo dato si evince anche dalla scelta delle sezioni proposte che compongono l’opera: dalle lettere destinate ai sacerdoti novelli e ai parroci, a quelle per i titolari di uffici di Curia, ai Superiori del Seminario e ai Religiosi. Lo stile è «sempre autorevole ed autoritativo, ma elegantemente rispettoso: usava il “Tu” solo rivolgendosi ai sacerdoti suoi coetanei, ai suoi alunni, a quanti formati in Seminario durante il suo episcopato e poi Ordinati da lui; il “Lei”, signorilmente, a tutti gli altri, anche se più giovani di lui» (p. 22). Nessun formalismo, ma massima attenzione alla forma, sebbene non per rimarcare una supremazia, bensì per evidenziare l’importanza dell’ufficio a cui si è chiamati: «Mantenere il prestigio della Autorità – scrive al suo caro Vicario generale – è mantenere l’equilibrio in tutti, la discrezione, la prudenza, la misura. Lasciare che l’Autorità esca sminuita è rovinare tutti questi elementi costitutivi di un “ordine”» (p. 195).
Si era, inoltre, impegnato a seguire da vicino – anche per conto di papa Pio XII – coloro che sperimentavano una crisi vocazionale, considerandoli affidati a lui dalla Provvidenza divina. In questi casi, accompagnava le sue missive con alcune parole emblematiche: «La testa e il cuore possono rimanere distinti. È per questo che il cuore rimane per me immutato nei tuoi confronti a tutti gli effetti. Un padre rimane padre qualunque cosa accada». Oppure: «Porto con me un dolore che mi accompagnerà sempre, che non sarà mai acredine o disprezzo, che coltiverà sempre in modo fedele la carità e l’attesa della perfetta grazia e misericordia di Dio sulla tua povera vita» E ancora, tra i molti esempi: «Io distinguo te da quello che fai. Tu sei sempre per me un figlio» (p. 17).
Elargiva sempre sagge indicazioni e consigli pratici, come per esempio quando riconsegna a un parroco una piccola summa sul ministero: «1 – Non dimenticare mai: tanto di azione, tanto di orazione. Il più noi lo facciamo anzitutto pregando. La preghiera è il vero solvente di tutte le grane. 2 – Anzitutto e soprattutto l’impegno spirituale: Santa Messa, Sacramenti, catechismo senza fine, insegnamento dell’ascesi a tutti, adorazione, visite al Santissimo Sacramento, ritiri spirituali, ordinamento di vita. Tutto il rimanente, doverosissimo, necessario, insostituibile è un mezzo per arrivare a questo. La chiarezza di questa visione non ti abbandoni mai. 3 – Il Parroco deve fare anzitutto tutto da se stesso, anche se avesse una Collegiata di Vicari Cooperatori. Fin che può deve far lui e non considerarsi a poco a poco un padrone che comanda e fa filare gli altri. Questo consiglio ti verrà bene appresso. Non cadere nell’errore grave di taluni Confratelli che sono convinti di non dover fare quello che non possono fare attraverso gli altri, essendo il loro dovere solo quello di comandare. No! “Parochus debet per semetipsum…”» (pp. 108-109).
Era molto generoso con chi si trovava in difficoltà, nonostante non facesse la carità «dal balcone» (com’era uso ripetere per disapprovare coloro che aiutano i bisognosi facendo piovere dall’alto il loro gesto di beneficenza), ma interveniva indirettamente per non far scoprire il suo concreto interessamento. Sapeva, però, essere scherzoso con i preti con cui aveva più confidenza: «Caro Don […], inclito babbeo, poiché frigni, ti accludo centomila lire per darti una mano nei lavori onerosi della tua parrocchia […]. Ora riposati un poco e lascia che il mondo vada per qualche minuto da sé. […] Caro ragazzino: non fare le bizze, piglia i soldi, spendili bene e sta zitto. Parla molto col Signore, che ti arrangerà – credo – tutto» (p. 116). Dalle lettere appare – secondo l’autorevole giudizio del curatore – anche la spiritualità del Cardinale: «le sue adamantine convinzioni teologiche, la sua fede, il suo amore alla Chiesa (“contento di aver sofferto per Essa” – dichiarò nel testamento), la sua limpida, assoluta coscienziosità, la consapevolezza della sua responsabilità nei confronti dei suoi preti, non occasionale, ma diuturna» (p. 23).
Dopo la rinuncia nell’età moderna al Padre Eterno, alla figura del padre di famiglia con la rivoluzione sessuale del ’68 e infine a quella del padre biologico nei nostri giorni, si avverte sempre più la necessità di trovare una presenza paterna. Il bisogno è di avere di nuovo dei punti di riferimento sia per il Popolo di Dio sia con un’attenzione tutta particolare per i sacerdoti. Chiedo conto al cardinal Angelo Bagnasco tra i successori più illustri sulla cattedra di San Giovanni Battista, il quale indica come necessaria la presenza paterna: «Quella paternità che un sacerdote richiede dal proprio vescovo, padre e pastore, sia nei momenti di luce sia (e ancora di più) nei momenti di buio. Una paternità senza la quale il sacerdote diventa orfano, figlio di “nessuno”. Certo, possiamo guardare il Cielo dove c’è il Padre di tutti, ma questa paternità di Dio sappiamo che nella Chiesa si esprime innanzitutto attraverso i Pastori». E il suo carteggio raccolto in volume, pagina dopo pagina, fa scoprire proprio come il cardinal Giuseppe Siri abbia incarnato davvero questa grande paternità. (Fonte foto: Ansa)
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