Quando alle 7:50 circa, ora italiana, l’emittente televisiva statunitense Fox News gli ha ufficiosamente assegnato lo Stato del Wisconsin, Donald Trump è diventato virtualmente il 47° presidente degli Stati Uniti d’America e l’ufficialità dell’investitura non tarderà, una volta che i dati elettorali si faranno definitivi.
Decisivi sono stati Arizona, Georgia, Michigan, Nevada, North Carolina, Pennsylvania e Wisconsin. Di questi, la Georgia è passata dai Democratici ai Repubblicani nel cuore della notte italiana e, al momento in cui scrivo, anche l’importantissima Pennsylvania sembra orientata a fare lo stesso. Nei restanti Stati in bilico, con spogli già in fase assai avanzata, Trump è del resto in netto vantaggio. Solo il Minnesota, lo Stato di cui è governatore Tim Walz, candidato alla vicepresidenza di Kamala Harris, andrà ai Democratici.
Una prima analisi del voto, confermato ora dopo ora durante la maratona notturna, man mano che i risultati affluivano, è il persistere del divario fra gli Stati Uniti dei grandi agglomerati urbani e gli Stati Uniti rurali. In questo contesto, «rurale» non significa del resto «agricolo»: significa il Paese della sterminata provincia nordamericana, lontano dalle dinamiche spersonalizzanti delle megalopoli, insomma la cosiddetta «Heartland America», gli «Stati Uniti del cuore pulsante».
Si sono infatti scontrate due visioni del Paese, dell’esperienza americana, persino del mondo. Da un lato il progressismo smaccato della cancel culture, della mentalità woke, della negazione dei princìpi non negoziabili; dall’altro almeno la messa in discussione dei nefasti dell’ideologia liberal.
Quello che più importa ora è però il popolo che si staglia dietro Trump, che torna a essere presidente del Paese più importante del mondo: è il popolo degli operai disfatti dal volto più oscuro della globalizzazione, del ceto medio in via di scomparsa, delle famiglie che ancora un po’ tengono, delle Chiese non smarritesi nelle nebbie della modernità galoppante, dei valori che ancora restano e dello spirito americano vero contro le sirene dello sfascismo morale e politico. Il fatto che, trascorsi quattro anni in cui quel mondo sembrava essere stato definitivamente sconfitto o comunque messo alle corde, quel mondo sia invece tornato ancora alla Casa Bianca è un fatto storico (forte di un solo precedente: la rielezione di un presidente dopo una sconfitta, Grover Cleveland, nel 1892).
L’importanza del voto, di questo voto, è del resto sottolineata dal fatto che, nelle elezioni concomitanti per il Congresso federale, ovvero per 34 dei 100 seggi che compongono il Senato (i senatori hanno mandato di 6 anni e vengono rinnovati in ragione di un terzo ogni due anni) e per tutti i 435 seggi della Camera (i deputati vengono rinnovati completamente ogni due anni), i Repubblicani hanno certamente strappato il Senato ai Democratici (ora si vedrà con quale margine di vittoria) e sono in netto vantaggio nella Camera, la quale alla vigilia veniva peraltro data per certa ai Democratici.
Ora, il voto per il Congresso è fondamentale perché il Congresso è l’organo legislativo degli Stati Uniti, Paese il cui presidente non detiene la totalità del potere. È al Congresso che spetta varare le leggi, e come e quali leggi si varano è decisivo.
Male sono invece andati i referendum sull’aborto nella maggioranza dei 10 Stati che hanno posto il quesito all’elettorato. Tranne Florida e South Dakota, infatti, hanno vinto i quesiti referendari che chiedevano ai cittadini di ampliare quello che viene assurdamente definito il «diritto» all’aborto. Dopo la sentenza del 24 giugno 2022 con cui la Corte Suprema ha dichiarato incostituzionale la non-illiceità dell’aborto a livello federale (stabilita attraverso un abuso nel 1973), molti Stati sono tornati allo status quo ante, finendo virtuosamente per limitare moltissimo o addirittura per bandire l’aborto. Proprio per questo le forze politico-culturali favorevoli all’aborto sono partite alla carica per via referendaria, ottenendo oggi risultati importanti ma tristi.
Si annunciano, insomma, quattro anni di confronto serrato su questioni principiali e comunque serie. La buona notizia è che oggi le notizie buone dagli Stati Uniti hanno qualche speranza in più.
(Foto Ansa)
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