Da un’idea di don Samuele Pinna ha preso vita “Dietro le quinte”, una rubrica senza periodicità che vuole incontrare quei personaggi importanti che lavorano per il bene e non sempre appaiono in prima fila, ma appunto sono spesso “dietro le quinte”. Oggi l’intervistato è il giornalista Fulvio Fulvi autore di una biografia dell’attore francese Fernandel (1903-1971).
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Scrivevo nel mio A dottrina con don Camillo come il protagonista di Mondo piccolo sia «una delle figure letterarie contemporanee più amate: è capace di indossare – è il caso di dirlo – i panni del sacerdote che tutti vorrebbero ed è anche in grado di trasmettere profondi insegnamenti» [https://www.iltimone.org/news-timone/a-scuola-da-don-camillo/]. Al successo letterario dei racconti di Giovannino Guareschi è seguito quello cinematografico, grazie anche all’interpretazione magistrale di Fernandel. Non si può pensare al personaggio guareschiano senza immaginarsi il volto tanto caratteristico del comico francese.
La vita di questo straordinario attore è stata messa nero su bianco dal giornalista Fulvio Fulvi, a cui chiedo immediatamente da dove sia nata l’idea di stilare la biografia intitolata Il vero volto di don Camillo. Vita & storie di Fernandel (Ares): «è stato concepito partendo da una mia curiosità personale: chi era quel simpaticone di Fernandel? Sapevo che era un attore francese dal sorriso largo, e basta. Un bravissimo don Camillo che sapeva portare bene la tonaca e rendeva sullo schermo il personaggio che avevo conosciuto leggendo da ragazzo i racconti di Guareschi. Ricordo gli spot su carosello in cui pubblicizzava un famoso cognac insieme a Gino Cervi… Mi occupo sin da giovane di cinema, la mia grande passione, e allora ho cercato di saperne di più procurandomi quei film che lui aveva interpretato e che in Italia erano poco conosciuti. Poi, volendo approfondire, mi sono accorto che non esisteva nessuna biografia di Fernandel edita in Italia. E così mi sono messo a scriverla io…».
Ragiono: la popolarità per Fernandel diventa ancor più grande grazie alla personificazione del parroco della Bassa, sebbene fosse un artista già affermato in Francia quando fu scelto per quel ruolo: «Sì – mi viene confermato –, era già popolarissimo per aver interpretato circa 120 film nel suo Paese, fu scoperto da un intellettuale della Provenza, la sua regione, Marcel Pagnol, scrittore e drammaturgo: fu lui a lanciarlo nel mondo del cinema. Ma Fernandel, cioè, all’anagrafe del Comune di Marsiglia, Fernand-Joseph-Désiré Contandin, aveva cominciato con le macchiette del “vaudeville”, in una piccola compagnia teatrale con il padre e il fratello, girando con un camioncino i teatrini della Provenza. È stato il regista Julian Duvivier a volerlo come don Camillo nel primo film, uscito nel 1951». È risaputo che a Guareschi inizialmente Fernandel non piaceva, ma poi ha ceduto davanti alla sua bravura. Desidero conoscere ancora qualcosa del pretone dalle mani grosse come badili: «Don Camillo dal punto di vista letterario è un personaggio complesso, un esempio di sacerdote che ama il popolo e per la sua gente si impegna, mettendoci la faccia… Uno che ama il Crocifisso e ha consapevolezza di esserne un testimone, nonostante il carattere irascibile e un po’ burbero. I film della saga guareschiana tendono a semplificare però certi aspetti presenti nell’opera dello scrittore di Roccabianca. Ma ne restituiscono la sostanza. In ogni caso, secondo me, don Camillo viene fuori così com’è, un pastore in mezzo al suo gregge, anche perché esiste Peppone, l’amico-antagonista, il sindaco comunista che trova proprio nell’autentica passione per la sua gente un punto di incontro con il parroco attaccabrighe, nonostante la distanza ideologica. Personaggi “consustanziali”: non è possibile capire don Camillo senza Peppone. E viceversa».
A Fernandel i panni del sacerdote cascano a pennello, tanto che si racconta che sia stato scambiato più volte per un vero ministro di culto: «Sì, parlando con i cittadini più anziani di Brescello, il paese emiliano dove sono stati girati i film, sono venuto a conoscenza di tanti aneddoti divertenti. Fernandel, nelle pause del lavoro, andava in giro per le vie con gli abiti di scena. Non si toglieva mai la tonaca e un giorno accadde che una bambina lo fermò chiedendogli di benedire la sua bambola. Lui cercò di convincerla che non era un prete vero, ma lei insistette e lui la accontentò. Il figlio del sagrestano della chiesa di Brescello mi ha raccontato che Fernandel dopo pranzo usava fare una pennichella e chiedeva di stendersi sul divano della canonica per una mezzoretta prima di ritornare sul set. In cambio ripagava con qualche banconota proprio il figlio del sacrista, che spesso faceva anche da staffetta tra l’attore e il regista portando messaggi all’uno e all’altro. Riceveva molte lettere dagli spettatori che lo trattavano come un vero prete. Ma nel mio libro si raccontano tanti episodi del genere».
Incalzo. C’è stato un incontro importante, quello con Pio XII: «Papa Pacelli si era fatto proiettare in una saletta privata in Vaticano il primo film su Don Camillo, ne rimase colpito e chiese di incontrare l’attore. “Voglio conoscere il prete più celebre al mondo dopo di me”, disse ai suoi collaboratori. Così accadde che un giorno, mentre Fernandel si trovava a Roma con la figlia, fu raggiunto da due “camerieri” di Sua Santità che lo invitarono il giorno dopo a un rendez-vous con il Pontefice. L’attore ne rimase stupito e, da cattolico com’era, si commosse. Nel mio libro racconto quel momento, grazie anche alla descrizione che lui stesso ne fece in un’intervista pubblicata su una rivista francese dell’epoca».
Non possono non domandare se Fernandel sia stato un uomo di fede: «Fernand Contandin era un convinto cattolico, ebbe un’educazione religiosa, tanto che quando gli fecero leggere il copione del primo film, stava quasi per rinunciare alla parte perché, come si sa, ci sono dei brani – a mio avviso i più “decisivi” del personaggio – in cui don Camillo parla con il Crocifisso e Lui gli risponde. Pensava che fosse una cosa blasfema, ma poi si accorse che non era così…».
La religiosità – se è vera – s’incarna nel quotidiano, e pertanto voglio sapere qualcosa della sua vita privata: «Fernandel è stato un marito fedele per tutta la vita (è stato sposato con Henriette per 46 anni) e padre di tre figli, due femmine e un maschio, Franck, anche lui attore (anche se di scarso successo). Con i figli era amorevole ma severo. E aveva un rapporto idilliaco con la suocera: fu lei infatti a dargli il nome d’arte Fernandel perché quando, da fidanzato, andava a trovare la sua Henriette, la mamma di lei lo presentava dicendo: “Et voilà, le Fernand d’elle!” (“Ecco il suo Fernando”). Da cui, appunto… Fernandel. Geniale no?». Del resto, il genio si è mostrato anche nella sua lunga carriera che non si può ridurre ai soli lungometraggi su Don Camillo (basti pensare al film con Totò, due maschere all’epoca amatissime nei rispettivi paesi d’origine): «Fernandel al cinema interpretava soprattutto personaggi bonari che rispecchiavano la sua naturale simpatia. Indubbiamente anche la faccia, dall’impronta cavallina, e la risata, influivano sulla caratterizzazione. Ma nella sua lunga carriera è stato protagonista anche con ruoli drammatici in film più o meno “impegnati”. Senza contare il gendarme di La legge è legge, con Totò, del 1957 di Christian-Jaque, i più important, tra quelli che hanno avuto un’eco anche da noi, secondo me, sono stati il commesso viaggiatore Casimir nell’omonimo film di Pottier del 1950, Topaze di Marcel Pagnol, dello stesso anno e, dopo l’esordio nei panni del parroco guareschiano, Il nemico pubblico n. 1 di Henri Verneuil del 1953, La Vacca e il prigioniero di Verneuil del 1959, dove interpreta un militare francese catturato dai tedeschi e mandato a fare il contadino in una fattoria della Germania, Il giudizio universale di Vittorio De Sica, del 1961, Le tentazioni quotidiane di Duvivier, uscito l’anno successivo… Ma l’elenco potrebbe continuare!».
Saluto il noto articolista di Avvenire con un ultimo quesito: quale messaggio lascia in eredità la persona di Fernandel? «Il messaggio che a mio giudizio ci ha lasciato questo grande attore è innanzitutto di una giovialità mai banale, una grande simpatia umana, un raro rigore professionale (morì praticamente sul set, mentre girava l’ultimo film della saga, Don Camillo e i giovani d’oggi: stava male ma volle lavorare ugualmente, svenne durante le riprese e pochi giorni dopo spirò nella sua casa di Parigi). Un’altra dote (un insegnamento da cui si dovrebbe imparare) è la capacita di essere un buon amico: così è stato con Gino Cervi, Jean Gabin, lo stesso Pagnol che lo lanciò come attore cinematografico. Era un uomo retto che aveva un senso del dovere e un amore per la famiglia. E noi spettatori “incalliti” dei film di Don Camillo, che non ci perdiamo mai una replica quando vengono riproposti in televisione, ce lo vogliamo ricordare sempre così, in tonaca, con la bicicletta, che parla con il Crocifisso (il quale gli risponde e “corrisponde”) e litiga amorevolmente col compagno Peppone, che non era nemmeno tanto diverso da lui».
(Foto screenshot dalla copertina del libro di Fulvio Fulvi, Il vero volto di don Camillo, ed. Ares)
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