Niente ragazzi, portate pazienza: non ce la fanno proprio. I registi che piacciono alla gente che piace non riescono quasi mai a concepire un film senza poi infilarci dentro un po’ (un po’ tanto) della loro visione ideologica. Per questo c’è da meravigliarsi fino ad un certo punto che, in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, vi sia un’opera di Pedro Almodóvar smaccatamente pro eutanasia: La stanza accanto. Primo lungometraggio di lingua inglese del regista spagnolo, si tratta di una pellicola dalla trama decisamente semplice. Da quanto infatti è dato capire, La stanza accanto – interpretato da Julianne Moore e Tilda Swinton, attrici che per la gran parte del film sono sole in scena – racconta d’una reporter di guerra malata terminale di tumore (Tilda Swinton) che chiede all’amica Ingrid (Julianne Moore) di assisterla fino a che non decide di chiedere la “dolce morte”; un’istanza che però metterà questa seconda amica dinnanzi a non banali dilemmi morali e, soprattutto, a grane giudiziarie. Quest’ultimo punto è centrale, dato che Almodóvar ha espressamente concepito il film come una denuncia contro gli Stati che ancora osano non consentire l’eutanasia.
Più precisamente, siccome la Spagna ha legalizzato la “dolce morte” nel 2021, il regista iberico è dell’avviso che pure gli altri Paesi dovrebbero affrettarsi e seguirne l’esempio; al punto che perfino la decisione di ambientare La stanza accanto negli Stati Uniti – viene evidenziato – è legata proprio alla volontà del cineasta di puntare il dito contro le leggi del paese che invece non permettono di porre fine volontariamente alle sofferenze. «Dovrebbe esserci la possibilità di praticare l’eutanasia in tutto il mondo», ha pure dichiarato ,Almodóvar a chi fosse duro di comprendonio, e non avesse ancora capito come la pensa. Ora, può pure essere che La stanza accanto sia un capolavoro: non avendolo visto, non lo sappiamo. In compenso sappiamo, essendo arcinoto, un fatto: di film pro eutanasia ne esistono già una barca – da Mare Dentro (2004) a Million Dollar Baby (2004), da Le invasioni barbariche (2003) a È andato tutto bene (2021) – e son praticamente tutti favorevoli al presunto “diritto di morire”. Dunque, con tutto il rispetto per Pedro Almodóvar, ben poco può aver aggiunto con il suo film, per quanto bello possa essere, a un filone che esiste da almeno vent’anni, e sempre col solito immancabile successo di critica.
Ben più coraggioso, invece, sarebbe stato il regista spagnolo se, pur occupandosi di fine vita, avesse fatto altro. Che cosa? Beh, avrebbe potuto raccontare storie sconvolgenti legate alla “dolce morte”. Come quella della signora belga Godelieva De Troyer – uccisa nell’aprile 2012, quando aveva 65 anni, dal dottor Wim Distelmans solamente perché depressa e senza neppure che i figli della donna ne fossero informati – o di Tine Nys, donna di 38 anni a cui nel 2010 venne diagnosticato un finto autismo pur di autorizzare la morte che lei, perfettamente sana, aveva chiesto dopo essersi lasciata con il fidanzato. Oppure Pedro Almodóvar avrebbe potuto raccontare al suo pubblico quanto accaduto in Canada all’atleta paralimpica Christine Gauthier, che ha osato protestare per i ritardi nell’installazione in casa sua di un montascale e…si è sentita rispondere che tutto quello che le poteva essere offerto è la morte assistita; o la vicenda di Roger Foley, affetto da atassia cerebellare, serio disturbo neurovegetativo, il quale non potendosi permettere i 1.500 euro al giorno di cure si è sentito consigliare dal personale ospedaliero (da lui registrato con degli audio) di togliersi dalle scatole tramite l’eutanasia.
Questo, infatti, è il vero volto della “dolce morte”: quello di persone disabili o malate che oggi vengono concepite come un “costo” e, come tali, invitate – in modo più o meno chiaro – ad uccidersi. Un orrore ed un degrado sociale che meriterebbero d’esser una volta per tutti raccontati e denunciati pure su pellicola; peccato che ai radical chic che popolano giubilanti la Mostra del Cinema di Venezia – così come ai registi non meno radical chic che lì vanno a dir cose per le quali già sanno che prenderanno applausi – le scomode verità non piacciano. Perché sono troppo benestanti e troppo ideologizzati per conoscere i problemi della povera gente. È il grande limite che sperimenta, non da oggi, gran parte della cultura dominante: concepita in circolini elitari, sa solo parlare di donne in salsa femminista, di migranti, di transgenderismo o di eutanasia. Il tutto sempre declinato – salvo rare eccezioni, stando ai film, come October Baby (2011) o Sound of Freedom (2023) – in chiave progressista ed ultralibertaria. E pazienza se la vita vera, in questo caso quella dei malati che soffrono e che non chiedono l’eutanasia bensì cure e magari un abbraccio, resta fuori dai cinema. O al massimo nella stanza accanto. (Foto: Ansa)
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