Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo intervento di analisi del recente libretto pubblicato dalla Pontificia Accademia per la vita sui temi del fine-vita. Ci sembra che il rischio a cui fa riferimento la disamina dell’avvocato Domenico Menorello, coordinatore del network associativo “Ditelo sui tetti”, colga bene il punto: non si può mai ritenere sufficiente per un “dialogo” la semplice accettazione della compresenza di posizioni ontologicamente alternative. Per dirla in modo evangelico, pur nella complessità e nella estrema delicatezza della materia – o forse proprio per questo – occorre che «il vostro parlare sia: “Sì, il sì”, “No, il no”; il di più viene dal Maligno». (Mt 5,17-37). (Lorenzo Bertocchi)
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Il “Piccolo lessico del fine vita”, testo curato dalla Pontificia Accademia per la Vita, ha provocato un bailamme mediatico inversamente proporzionale all’attenzione prestata ai suoi contenuti. Ma sarebbe poco serio rammaricarsene. Si tratta di una reazione dell’apparato mass-mediatico del tutto prevedibile se non persino scontata, intrinsecamente legata alle modalità con cui è stato scelto di far apparire tale testo.
Factum infectum fieri nequit, ci insegnavano al primo anno di studi universitari. Perciò, vale la pena lasciar perdere le recriminazioni e provare invece a considerare soprattutto quel che si legge nel documento. Innanzitutto, avendone ben presente la “portata”, specie per i cattolici. In particolare, la pubblicazione di una “accademia” non appartiene agli atti del magistero, propri semmai di ben altre sedi, ma ha lo scopo di proporre riflessioni per la formazione più compiuta di giudizi su determinate questioni. Quindi, è errato il profluvio di titoli giornalistici letti in questi giorni, che, per lo più strumentalmente, hanno rappresentante nuove “scelte” della Chiesa in tema di fine-vita. Tale caveat appare particolarmente necessario nel caso in esame, non solo per la natura appunto solo “accademica” dello scritto, ma anche perché lo stesso risulta essere esito dell’apporto di una decina di autorevolissimi singoli autori, in effetti nominalmente indicati alla fine dell’introduzione, piuttosto che di una collegiale elaborazione della ben più ampia platea degli “accademici” della PAV.
Benvenga, allora, come inaugurato dal Centro Studi Livatino, un dialogo sui contenuti di questo “piccolo lessico”, anche perché che il “merito” dell’iniziativa “meriti” davvero molta attenzione balza all’evidenza fin dalle prime righe della suggestiva introduzione di Mons. Vincenzo Paglia.
Quel che soprattutto colpisce positivamente è la dichiarata intenzione di ricercare ragioni intelleggibili a tutti per giudicare le diverse posizioni sul “fine-vita”, al tempo stesso negando che possano bastare meri toni assertivi o rivendicativi per proporre come la tradizione, il pensiero e il magistero della Chiesa ritengano di tutelare la vita di ogni uomo. È una posizione necessaria se ognuno intende comprendere per sé la posta in gioco e non accontentarsi di una supina accettazione di regole morali. È, poi, una posizione ulteriormente necessaria, se si vuole minimamente prendere atto che, forse da almeno di 10-15 anni, siamo entrati in quello che Papa Francesco non si stanca di dipingere come “cambio d’epoca”, in cui non vi è più nessuna cornice valoriale, nemmeno formale, generalmente condivisa nella società. In tale radicalmente mutato contesto sociale, la mera ripetizione di canoni etici non incide minimamente, perché i vari “non-si-può” appaiono ormai semplicemente incomprensibili, quando non ottengono anche l’effetto di relegare ancor di più ai margini del dibattito pubblico i cattolici, facilmente additati come un “panda allo zoo”, come, cioè, una sorta di specie umana rarissima pressoché estinta.
Il “piccolo lessico” ha il pregio di “scavare” nelle concezioni dell’umano che sono in gioco nelle scelte sul “fine-vita”, individuando, da un lato, il dogma dell’autodeterminazione come possibile unico canone di valore che esalta l’individuo performante e nega dignità alla vita non autonoma, dall’altro una prospettiva antropologica per cui, invece, la vita ha sempre un valore oggettivo, con la valorizzazione della dimensione relazionale e di cura. Dal tracciamento di almeno tali due posizioni antropologiche, il “piccolo lessico” fa bene ad auspicare che possa prendere il largo un “dialogo sentito approfondito” nella società italiana, “piuttosto che ideologie preconfezionate e di parte”.
IL RISCHIO DI CHIUDERE UN OCCHIO
Ma qui si annida, per tutti, anche il rischio più grande: il rischio di ritenere sufficiente per tale “dialogo” la semplice accettazione della compresenza di posizioni ontologicamente alternative, limitandosi ad auspicare un qualsiasi avvicinamento fra le stesse, comunque questo si realizzi, anche al prezzo che una di esse divenga recessiva rispetto a quella dominante nel mainstream.
Invece, il dialogo esiste davvero, vibra, si accende, decolla e appassiona, purché, come ha ben detto Paola Binetti qualche giorno fa, “non si cerchi un compromesso, ma si faccia luce sulla verità”, il che implica che la sfida della ragione davanti a posizioni così differenti sul valore della vita non possa accontentarsi di “chiudere un occhio” su qualche aspetto per ridurre le distanze, ma debba continuare a chiedersi e a chiedere pubblicamente quale di queste due posizioni sia più adeguata all’umano. Più ragionevole, appunto.
LA VITA NON E’ UN BENE DISPONIBILE
In tal senso, lascia perplessi la scelta, operata a pag. 8) del “piccolo lessico”, di voler espressamente accantonare la riflessione sulla “disponbilità” o meno della vita. È una opzione che può divenire, anche contro l’intenzione degli autori, altrettanto ideologica di altre posizioni preconcette che, giustamente, vengono stigmatizzate dal libretto della PAV. D’altronde, se non si illumina, con la ragione, proprio il nodo della “indisponibilità della vita” come possono non franare sotto i potenti colpi della mentalità dilagante le posizioni di chi ritiene sbagliato interrompere una vita malata e fragile? Ma è possibile proporre con la ragione una non-disponbilità dell’esistenza? Nel recente Festival dell’ “umano tutto intero” si è visto come la vita contenga, in tutti, un fattore che non muore mai, che si accende massimamente proprio nel limite, un brillio che riluce proprio dalle crepe (L. Cohen). Infatti, sempre emerge, resiste, persiste la domanda di significato, di pienezza, di giustizia. In altri termini, mai l’umano smette di sperare, in tal tensione divenendo essenziale la dimensione relazionale verso cui la domanda esistenziale si rivolge. Dunque, c’è almeno un fattore, che oggettivamente non finisce, non muore, cosicché il negare ogni possibilità di valore alla fragilità diviene irragionevole perché elimina questo essenziale elemento della vita, che la rende invece sempre grande.
Solo se ci aiuteremo a proporre a tutti di accettare e comprendere questa inestirpabile dimensione “religiosa” dell’umano, con la “bellezza” e la corrispondenza delle posizioni umane di cura che ne scaturiscono, allora potremo illuminare con la ragione molte scelte, anche pubbliche. Altrimenti, difficilmente potremo davvero uscire dalla dominante spirale del soggettivismo e del nichilismo, pur cogliendone la teorica insufficienza.
FINE VITA, PRINCIPI E NORME
Ad esempio, nel “piccolo lessico” ci si accorge di come l’attuale disciplina sui bio-testamento sia stata troppo condizionata dalla postura individualista, quando, a pag. 35 (cfr. par. 6), viene giustamente criticata una concezione che enfatizza, in modo evidentemente ideologico, le disposizioni impartite in astratto dal soggetto quando è in salute, ma, poi, si finisce egualmente per arrendersi acriticamente al carattere vincolante delle DAT imposto dalla stessa legge 219/2017 a scapito della situazione reale di malattia e del relativo rapporto con il medico.
In altri paragrafi (10, 11, 13, 16, 22), si ricerca, giustamente, la “proporzionalità” dei “Trattamenti di Sostegno Vitale”, della “medicina intensiva”, nonché delle “nutrizione e idratazione artificiali” (peraltro inspiegabilmente accettate come trattamenti sanitari)”, ma presto sbiadisce la messa a fuoco degli elementi oggettivi degli stessi (nonostante un documento del luglio 2024 sul punto del CNB, del tutto ignorato), per lasciare invece spazio a un preponderante ruolo delle volontà soggettive rispetto ad essi. In tali occasioni, cioè, la rinuncia ad aver esplorato le ragioni del valore oggettivo dell’esistenza e della relativa indisponibilità, lascia, seppur involontariamente, spazio alla prevalenza di un soggettivismo di matrice individualista. Ma, qualora anche la “proporzionalità” dei trattamenti venisse parametrata soprattutto all’interpretazione dei desiderata soggettivi, si aprirebbero spazi indefiniti alla non punibilità dell’aiuto al suicidio di un malato.
Il par. 21, infine, ha il merito di porre un tema cruciale: se e come considerare un intervento legislativo sul fine-vita. Di nuovo, in realtà, si tratta di scelte che di per sé spettano ad altre sedi, in questo caso rilevando quelle parlamentari. Precisato il profilo della mera riflessione pre-politica, che certamente spetta ai piani accademico-intellettuali e alle formazioni sociali, non si può non notare come fra le righe del “Piccolo Lessico” dedicate a questo essenziale problema sembri farsi spazio quella posizione “mediatrice” di cui si diceva poco sopra, per cui più che l’offerta di ragioni antropologiche a sostegno di una delle opzioni possibili, si prospetta, assai genericamente, una qualche maggior assonanza rispetto all’incalzante pressing dell’associazione Coscioni come dei player culturali e mediatici ideologicamente schierati su pretese iper-individualiste. A pag. 70, infatti, ci si limita ad auspicare un “punto di convergenza … accettabile fra posizioni differenti”, al fine di “partecipare alla maturazione di un ethos condiviso”.
Ma se la “convergenza” accantona le ragioni dell’umano integrale (un po’ come il libro in commento accantona esplicitamente le posizioni del Magistero sul punto), soprattutto in campo legislativo si rischia di avallare uno scenario irragionevole, cioé dis-umano. Infatti, se è vero che una “legge”, come insegna Tommaso d’Aquino, indica sempre un ritenuto “bene” a tutta la società, una legge che dettasse procedure perché le strutture sanitarie possano disporre la fine della vita malata, affermerebbe come senza valore una vita non più performante, non più capace di successo Dunque, una legge che introducesse prestazioni sanitarie di morte darebbe un pubblico messaggio culturale e antropologico di disvalore e inutilità alla malattia e alla fragilità, affermando come “bene” che queste vite siano eliminate, “scartate”. Si tratta di un pericolo sociale molto grave, specie nel “cambio d’epoca” in cui ci troviamo, nel quale, per l‘assenza di canoni valoriali condivisi, un simile messaggio da parte di una “legge” farebbe dilagare ulteriormente nel Paese la “cultura dello scarto”. Si ha l’impressione che il “Piccolo Lessico” tenda a sottovalutare tale prospettiva. Ad esempio, quando a pag. 46, si limita ad annotare, quasi incidentalmente, che “Può accadere, anche contro le intenzioni di chi la propone, che una legislazione rivolta alla platea, pur ristretta, di pazienti che intendono esplicitamente richiedere l’eutanasia provochi anche una sorta di richiesta indotta da parte di persone che, rese fragili dalla malattia, si sentono di peso per le loro famiglie e per la società.” Sembrano molto più avvertite delle conseguenze sociali di una norma eutanasica la recente sentenza della Corte costituzionale n. 135/24 o le severe ricerche demoscopiche condotte recentemente dai professori Della Zuanna e Colombo, che documentano come in tutti i paesi in cui sia stata introdotta una legge procedurale sul “fine-vita”, proprio il giudizio di disvalore affermato pubblicamente abbia determinato una impennata di richieste di essere uccisi da parte di malati. Né è facile comprendere come queste fonti non siano state adeguatamente considerate nel libro in commento, il quale, altrimenti, anziché scrivere che “può accadere”, a pagina 46 avrebbe piuttosto dovuto ammettere che “Certamente accade” che leggi procedurali sul fine-vita determinano una grave pressione sui più fragili. E avrebbe certamente assunto prospettive meno generiche in proposito.
Ciò non significa non convenire su quanto si legge ancora a pag. 70, secondo cui “non si può ignorare” quanto stabilito dalla Corte costituzionale. Ma la stessa Corte lascia un ampio spazio al legislatore circa il bilanciamento dei diversi profili ed è la stessa Corte a escludere un obbligo della sanità pubblica a fornire prestazioni di morte, che ne snaturerebbero la vocazione costituzionale alla cura di ogni fragilità. Non solo: è ancora la stessa Consulta a sostenere la ragionevolezza di una norma penale, l’art. 580 cp, come protezione verso i più deboli, perché non siano indotti a ritenersi inutili secondo una mentalità meramente utilitaristica. Il legislatore potrà, allora, ben intervenire senza proceduralizzare prestazioni di morte nel SSN, magari ricesellando il perimetro di punibilità dell’art. 580, il che rispetterebbe il dictum della Corte, ma implicherebbe anche la conferma che il “bene” è la protezione e non lo “scarto” dei malati e dei più deboli. Perché non ci potrebbe essere una ampia convergenza su questa ragionevole necessità del “bene comune”?
*Coordinatore network associativo “Ditelo sui tetti”, Vicepresidente Movimento per la Vita
(Foto Imagoeconomica)
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