Pavel Durov, fondatore e Ceo di Telegram, app di messaggistica da quasi un miliardo di utenti, è stato arrestato. È successo sabato sera, all’aeroporto di Le Bourget, nei pressi della capitale francese, «ed è (era) – leggiamo dal Post – previsto che compaia in tribunale già domenica. La magistratura francese lo ha accusato di essere complice delle attività illegali permesse da Telegram, un sistema di messaggistica che non ha praticamente un sistema di moderazione, e la cui azienda non collabora con le forze dell’ordine nelle indagini e nella rimozione di contenuti potenzialmente dannosi».
Dei 950 milioni di utenti mondiali, ben 40 si trovano nell’Ue ed è particolarmente popolare nelle repubbliche dell’ex Urss, soprattutto Russia e Ucraina. Le caratteristiche che rendono questa piattaforma così apprezzata sono le stesse che ne spiegano le criticità: permette di avere conversazione private e sicure tra due persone e di creare gruppi molto ampi, fino a 200 mila membri, consente inoltre di attivare canali che in alcuni paesi le stesse istituzioni utilizzano per raggiungere rapidamente i propri cittadini. Un’altra caratteristica distintiva e rischiosa di Telegram è la possibilità di iscriversi in modo del tutto anonimo, oltre alla scelta dell’azienda di non collaborare in nessun caso con i governi e le forze di polizia per rimuovere contenuti considerati dannosi, in nome della libertà di espressione.
La magistratura che ha spiccato il mandato d’arresto a Durov, cittadino sia russo sia francese, non appena è atterrato in Francia, gli ha notificato diversi e gravissimi capi d’accusa: complicità in traffico di stupefacenti, terrorismo, frode, pedo pornografia. Accuse molto gravi e tutte da verificare: all’amministratore di Telegram sono imputati tutti i reati che gli utenti hanno compiuto utilizzando la piattaforma, perché la piattaforma in questione non modera i contenuti che su di essa circolano.
Se è vero che, grazie alla governance totalmente liberale secondo la quale è gestita, la app è considerata una sorta di paradiso legale del mondo social, nel quale si può contare su un alto margine di impunità, resta pur sempre vero che su tutti i social media circolano nefandezze, truffe e orrori di ogni risma, ma non tutti i ceo di social network vengono arrestati. A nessuno è venuto in mente, o meglio a nessuno a cui in caso sia venuto in mente è stata data la possibilità di farlo, di incriminare Jack Dorsey, fondatore di Twitter quando ancora si chiamava Twitter, per l’uso che ne faceva l’Isis, tutte attività piuttosto distanti dalle linee guida che respingono l’incitamento alla violenza.
E tra i cinguettii che sono stati soffocati nei byte, forse, possiamo ricordare anche quelli che riportavano notizie – poi ampiamente confermate – sui reati compiuti dal figlio di Biden. Su pressione dell’FBI, riporta anche Insideover, «durante la campagna presidenziale del 2020 le notizie relative al laptop appartenente ad Hunter Biden vennero censurate dalle piattaforme social, nonostante la documentazione pubblicata dal New York Post provasse l’esistenza delle e-mail contenute nello stesso portatile. Si trattava non solo di prove che documentavano la vita dissennata e sopra le righe di Hunter Biden, ma soprattutto di documenti che dimostravano il probabile coinvolgimento del padre negli affari del figlio in Paesi come l’Ucraina e la Cina».
È stato il nuovo amministratore del social, divenuto X, a diffondere come aveva promesso consistente documentazione che dimostra come ci sia «ampia connessione fra potere politico e Big Tech al fine di censurare i contenuti scomodi e limitare così la libertà di espressione garantita dalle costituzioni occidentali.» Laddove la pratica della moderazione dei contenuti è sistematicamente messa in atto, per contro, l’esperienza utente e, peggio, la libertà di espressione delle persone sono alterate in modo abbastanza significativo.
Lo racconta anche un pochissimo sospettabile Avvenire, riferendo del trattamento che i post social della testata subiscono dal servizio censura di Meta, per Facebook: tra i post che hanno subito ingiusta penalizzazione, annovera addirittura un articolo che riporta le parole di pace del cardinal Pizzaballa. Su questo e altri post che citano la guerra in Medio Oriente si abbatta, ottusa, la scure della moderazione gestita dall’AI che, una volta segnalata l’anomalia, provvede a rimettere in circolo il post, comunque danneggiato dalla sospensione perché il grosso delle interazioni avviene proprio nei primi minuti dalla pubblicazione.
Benino, insomma. Di sicuro non si può negare il consolidato uso di un doppiopesismo in merito alle condotte dei fondatori dei social media e alla valutazione di ciò che è bene o non bene dire in questi spazi apparentemente sconfinati che questi mettono a disposizione. Aperto, senza dubbio, resta il grande tema della gestione per il bene di una rete tanto estesa, ricca di opportunità ma anche di enormi rischi. Lo ha detto il Pontefice in più occasioni e in una in particolare ha ricordato la necessità di una regolamentazione che metta al centro l’uomo, il bene comune, le relazioni: «Questa realtà multiforme e insidiosa pone diverse questioni di carattere etico, sociale, giuridico, politico, economico, e interpella anche la Chiesa. Mentre i governi cercano le vie di regolamentazione legale per salvare la visione originaria di una rete libera, aperta e sicura, tutti abbiamo la possibilità e la responsabilità di favorirne un uso positivo». (Fonte foto: Imagoeconomica)
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