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13.12.2024

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«Nella fede una diversità ragionevole non può trasformarsi in relativismo»
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18 Novembre 2024

«Nella fede una diversità ragionevole non può trasformarsi in relativismo»

Ho letto tutto d’un fiato il libro del cardinal Joseph Zen, Una, santa, cattolica e apostolica. Dalla Chiesa degli Apostoli alla Chiesa “sinodale”, a cura di Aurelio Porfiri, dato alle stampe per i tipi di Ares. Finita la lettura mi sono immaginato – non potendo trasvolare a Hong Kong – un dialogo tra me e il Presule, prendendo a prestito le sue parole vergate nel suddetto volume. Viviamo in tempi di confusione, ma il porporato invita alla speranza: il Signore ha sempre soccorso la Chiesa “una, santa, cattolica e apostolica”. Oggi, però, l’unità della fede non è per niente scontata: «In un’epoca moderna in cui ci sono tante correnti di pensiero confuse – m’immagino la voce del Cardinale chiara e ferma –, come possiamo promuovere l’unità della fede nella nostra Chiesa? Questa unità della fede non esclude la diversità sana e ragionevole, ma la diversità non deve trasformarsi in relativismo, e princìpi contrapposti non possono essere accettati come se fossero entrambi validi. Insistere su posizioni che contraddicono gli insegnamenti tradizionali della Chiesa significa promuovere volontariamente la divisione». Gioco forza, vorrei ora parlare della Sposa di Cristo, perché mi pare che l’idea di ecclesiologia che oggi va per la maggiore sia quanto mai debole. Vi è poi l’errore ricorrente di pensare la Chiesa come una realtà formatasi dopo il Nuovo Testamento, mentre è esattamente il contrario: «Gesù ha voluto costruire la sua Chiesa sugli apostoli, non su un libro. Il Vangelo, scritto per ispirazione dello Spirito Santo, dovrebbe essere interpretato nella viva Sacra Tradizione. La Sacra Tradizione, il Credo, e il Magistero sono elementi indispensabili della Chiesa. Se io dico: “Voglio Cristo soltanto nel Vangelo. Non voglio la Sacra Tradizione. Non voglio il Credo. Non voglio il Magistero”, non ho la minima possibilità di trovare Cristo. È Lui che vuole essere incontrato nella Sacra Tradizione attraverso il Credo e il Magistero. È Lui che ha chiamato alcuni uomini a essere strumenti della sua grazia».

M’interrogo se con questo pensiero “forte” non si perdano di vista “i segni dei tempi”: «Alcuni considerano il Concilio di Trento, l’enciclica Quanta Cura di papa Pio IX e la condanna del modernismo da parte di papa Pio X come un rifiuto di adattarsi ai tempi che cambiano. Ma quando un organismo è colpito da un virus ciò di cui ha bisogno è una medicina che ne eviti la diffusione. Le medicine non sono cibo, e tanto meno delle prelibatezze. Alcuni non accettano la Veritatis Splendor di Giovanni Paolo II, ma davanti alla minaccia del relativismo etico, come potrebbe il Papa non difendere l’esistenza di valori morali oggettivi?». È il compito, anzi il servizio dell’autorità: «L’autorità rappresenta Dio. Il suo compito è creare un ponte tra il Cielo e l’umanità. Se, invece di servire come ponte o come passaggio tra il Cielo e l’uomo, essa diventa un ostacolo, vìola il volere di Dio. Essere guida di una comunità è una chiamata, non una carriera. Chi viene scelto non dovrebbe guardare i propri interessi ma dovrebbe preoccuparsi di piacere a Dio e servire chi gli è affidato. Nei duemila anni passati gli apostoli e i loro successori hanno imitato il loro maestro Gesù? Hanno vissuto uno spirito di servizio? È facile che una guida religiosa venga idolatrata. E più vengono idolatrate e più grande è la tentazione di “controllare le persone”. Per tenere viva la consapevolezza di questa tentazione i papi sono soliti definire sé stessi “il servo dei servi”».

In fondo, è riconoscere che niente e nessuno può salvare, ma che Gesù è l’unico redentore: «Sì, e significa affermare che tutti possono essere salvati, nessuno escluso e senza distinzioni: ognuno è realmente importante e prezioso agli occhi di Dio. Dio vuole versare il suo sangue per tutti. Se anche altre religioni possono contenere semi della Parola ed elementi di salvezza, tuttavia dobbiamo credere che Gesù è l’unico salvatore dell’uomo e che tutta la grazia viene da Lui».

La fede si esprime nella Chiesa e come Chiesa: come valutare il Sinodo sulla sinodalità? «Da un lato, la Chiesa viene presentata come fondata da Gesù sul fondamento degli apostoli e dei suoi successori, con una gerarchia di ministri ordinati che guidano i fedeli nel loro cammino verso la Gerusalemme celeste. Dall’altro, si parla di una non ben definita sinodalità, una “democrazia dei battezzati”. (Quali battezzati? Vanno almeno in chiesa regolarmente? Hanno una fede basata sulla Bibbia e una forza che viene dai sacramenti?). Questa seconda concezione, se viene legittimata, può cambiare ogni cosa, la dottrina della fede o la disciplina della vita morale». Da qui, sembra che la sinodalità sia diventata un elemento strutturale fondamentale della vita della Chiesa. «Sì, ma allo stesso tempo si sottolinea come la sinodalità sia ciò che il Signore si aspetta da noi oggi. Partecipazione e comunione sono ovviamente caratteristiche permanenti della Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. Ma dire che la sinodalità è “ciò che il Signore si aspetta da noi oggi” non significa affermare che è qualcosa di nuovo? Senza voler vedere in questo una contraddizione, dovremmo ritenere che questo invito alla sinodalità inteso come qualcosa che non è una novità significhi dare un nuovo impulso a qualcosa che è sempre esistito nella Chiesa. Camminare insieme? Sì, ma nella Chiesa chi cammina insieme a chi? Qual è la destinazione di questo cammino? C’è una guida che indichi la corretta direzione?». Che cosa ci si propone davvero? «Si dice che non ci sia un’agenda, ma a volte è sembrato il contrario. Come dimenticare quella nota dell’Amoris Laetitia aggiunta al termine di due sinodi sulla famiglia? E quelle decisioni sui viri probati, anche se non sono state inserite nell’esortazione post-sinodale del Sinodo sull’Amazzonia? Come possiamo non dirci preoccupati guardando al “cammino sinodale” in Germania? Un gruppo di fedeli laici che si è autoproclamato rappresentativo dei cattolici, insieme a una maggioranza, ma inferiore ai due terzi, dei vescovi cita con un certo compiacimento gli abusi sessuali attribuendone la colpa al clericalismo; partendo da queste premesse concludono che c’è un serio problema nella struttura della Chiesa che richiede una radicale riforma (un rovesciamento della piramide?) e che la morale sessuale insegnata dalla Chiesa dev’essere aggiornata al contemporaneo modo di sentire. Questo cammino sinodale non è stato fermato con decisione. Vogliamo ricordare anche il movimento sorto in Olanda subito dopo il Concilio Vaticano II (con il nuovo Catechismo olandese) che ha portato la Chiesa in quel Paese a languire ancora oggi, come agonizzante? Non sembra fuori luogo citare anche il caso della comunità anglicana. All’arcivescovo di Canterbury è stato intimato dagli arcivescovi della Global Anglican Future Conference (Gafcon, che raccoglie l’85 per cento delle comunità anglicane del mondo) di fare un passo indietro a proposito della sua apertura alle unioni omosessuali; diversamente non gli verrà riconosciuto più il suo ruolo di guida religiosa. Nell’ampio documento della segreteria del Sinodo forse a qualcuno è sfuggita quella terribile e gratuita affermazione secondo cui il più pericoloso ostacolo alla sinodalità sarebbe il clericalismo».

E quella lunga lista di problemi che solo la sinodalità ci aiuterà a risolvere è solo un semplice inventario? «Leggendola mi è venuto il terribile sospetto che quello che stava a cuore ai redattori del documento fosse l’ultimo elemento della lista, cioè le minoranze con particolari tendenze sessuali, discriminate, disprezzate e marginalizzate nella Chiesa (lì, per la prima volta in un documento della Chiesa, appare, con una certa solennità, l’acronimo Lgbtq). In conclusione, credo che per i promotori di questo Sinodo la prima fase sia stata un grande fallimento. Da questo primo momento forse si aspettavano di raccogliere abbondanti esperienze per costruirci sopra l’edificio della sinodalità». Il vescovo cinese è critico anche nei confronti del metodo: «La metodologia particolare che è stata usata era la cosiddetta “conversazione spirituale”. In questa metodologia si prega e poi ognuno condivide la sua esperienza mentre gli altri ascoltano. Poi si prega di nuovo e si parla di nuovo, questa volta integrando quello che si è ascoltato. Si prega di nuovo e si sottolineano i punti di convergenza e di divergenza. Una cosa è la conversazione spirituale e un’altra il dibattito sulle idee. Ma senza un adeguato scambio di idee, come si possono risolvere i problemi? Se ci sono dei problemi bisogna discutere. Ovviamente la discussione deve partire dalla Parola di Dio e dalla Sacra Tradizione della Chiesa. Lo Spirito Santo guiderà la discussione a delle conclusioni condivise, come nel Concilio Vaticano II. Le preghiere devono essere concentrate all’inizio della discussione; durante la discussione lo Spirito è lì presente per guidare ciascuno nel dibattito. Imporre questo metodo alle procedure sinodali sembra un accorgimento finalizzato a evitare le discussioni. Si è trattato di psicologia e di sociologia, non di filosofia e teologia».

Il porporato va poi al cuore del problema: «C’è anche qualcosa che merita attenzione: un grande numero di laici, uomini e donne, partecipano al Sinodo con diritto di voto (anche in precedenza c’erano stati religiosi e laici, ma solo come esperti e uditori, senza diritto di voto); ciò significa che questo non è più un Sinodo dei Vescovi (come una bottiglia di vino non è più ciò che dovrebbe essere se le viene aggiunta un gran quantità d’acqua). Qualcuno ha detto che avevamo dimenticato la sinodalità mentre gli orientali l’hanno sempre mantenuta. Ma questo è un grande equivoco. Su questo Sua Eccellenza mons. Manuel Nin Güell, O.S.B., esarca apostolico per i cattolici di rito bizantino in Grecia, dice che per gli orientali il Sinodo è sempre esclusivamente dei vescovi; la parola sinodo viene usata non per indicare il “camminare insieme” di tutto il popolo di Dio, ma il “camminare insieme” dei vescovi con Nostro Signore Gesù Cristo (occorre ricordare che i patriarchi nelle chiese orientali non sono l’equivalente del nostro Romano Pontefice, pertanto per ogni decisione importante devono avere il consenso del Sinodo dei vescovi). Il Papa può convocare qualsiasi tipo di assemblea per ricevere i consigli che desidera. Ma nei sinodi dei vescovi votano soltanto i vescovi. Chiamare la recente assemblea ibrida “prima sessione del sinodo dei vescovi” è un grave errore. Ciò che desta una seria preoccupazione è che nell’Annuario Pontificio la segreteria del Sinodo dei Vescovi è chiamata Segreteria del Sinodo. Quale Sinodo? Anche un Concilio ecumenico è un Sinodo. E poi c’è il Sinodo diocesano. D’ora in poi sarà chiamata “sinodo” anche questa assemblea ibrida di consultazione? Nel frattempo, il vero Sinodo dei Vescovi, quello definito da Paolo VI al termine del Concilio Vaticano II come strumento di collegialità, assemblea attraverso la quale il Papa riceve consigli da parte dei suoi fratelli nell’episcopato, è scomparso!». E il cardinal Zen lo ribadisce: «Il Papa ha il diritto di consultare chi vuole e secondo le modalità che preferisce, ma non sarebbe corretto chiamarlo Sinodo dei vescovi».

Questi sono soltanto alcuni passaggi di un pensiero (e di un libro), ben più ricco e da assaporarsi capitolo dopo capitolo, pagina dopo pagina, riga dopo riga. Il cardinal Joseph Zen Ze-Kiun riesce, infatti, a indicare il cammino a chi vuol essere testimone – e, quindi, martire – dell’annuncio cristiano: «Il nostro Buon Pastore conduce tutte le pecore in un unico ovile. Non sappiamo in che modo lo farà, ma siamo certi che, avendolo deciso, un modo lo troverà. Possiamo non conoscere le sue vie, ma ci ha detto che cosa dobbiamo fare. Ognuno di noi è stato reso “luce per le genti” e ha la responsabilità di essere uno strumento di salvezza “fino agli estremi confini della terra”».

(Foto Imagoeconomica)

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