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13.12.2024

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A 140 anni da Porta Pia
31 Gennaio 2014

A 140 anni da Porta Pia

 

 

 

Il venti settembre scorso ricorrevano i 140 anni dalla breccia di Porta Pia. Per l’occasione, il Comune di Roma ha indetto in Campidoglio un convegno, «Roma diventa Capitale». Nella sessione presieduta dal Sindaco, Gianni Alemanno, e dal titolo “Roma e l’identità italiana”, Vittorio Messori è stato chiamato a svolgere una relazione, assieme a Giuliano Ferrara e Paolo Mieli. Pubblichiamo qui il testo completo di Messori, certi che interessi i nostri lettori.

 

 

Roma capitale e l’identità nazionale italiana Se questa identità esiste, è la somma del sentimento, identitario per l’appunto, dei singoli membri della nazione Italia. Non ammetteva Renan stesso – pur apostolo fervente di quel nazionalismo che portò inevitabilmente alla inutile strage del 1914, non ammetteva, dunque, che la Nazione non è che un plebiscito rinnovato, ogni giorno, da ogni cittadino? Saprete pertanto capirmi se inizio con un caso particolare, il solo caso che davvero conosca, essendo il mio. Sarò, dunque, sfrontato, partendo dall’esperienza personale, usando la prima persona singolare: io. Le moi est haissable, ha scritto quel Pascal che molto amo. Ma, alla fine, doverosamente si contraddì e annotò: «Parlare di sé è il modo migliore, è il più diretto per cercare di capire non solo se stessi, ma anche la vita e il mondo». Come testimoniamo i suoi Pensieri. tutti vergati col moi.
Venendo, dunque alla mia privata identità e al suo rapporto con Roma: sono nato in Emilia, dunque in una regione che deve il nome e la sua esistenza stessa alla via tracciata per 270 chilometri dal console Marco Emilio Lepido e costruita dai legionari abbattendo foreste, prosciugando paludi, scavalcando fiumi e torrenti. Con un progetto, dunque, che nessun altro avrebbe potuto concepire e che segnò per sempre l’intera Italia cis e trans padana. Ogni emiliano, sin dall’appellativo derivato da un Console, è inevitabilmente romano. Nulla, poi, è più romano del mio nome e cognome. I Victor e i Victorius furono talmente numerosi nel mondo latino che non ho mai saputo, letteralmente, a che santo votarmi, visto che pare siano ben 21 i santi di quel nome nel martirologio. Quanto al cognome: Messor, come ben sapete, è il mietitore ma era anche il nome di un dio delle messi venerato in Emilia ma venuto dal Lazio. Nei musei lungo la via Emilia ne ho visto altari ed ex-voto. Ho poi frequentato le scuole a Torino, dunque in quella Augusta Taurinorum che è nata come castra di cui conserva in un modo impressionante, forse unico al mondo, la scacchiera attorno al cardo e al decumano. Se ha avuto un antecedente prelatino, di questo si può solo favoleggiare, poiché non ha lasciato alcuna traccia. La città entra nella storia soltanto dopo la decisione degli strateghi legionari di costruire un caposaldo a protezione delle vie, romane ovviamente, del Moncenisio e del Monginevro. A Torino, sin dalla prima media, ho studiato il latino e ricordo ancora il titolo dell’antologia in più volumi che mi ha accompagnato ogni giorno, prima al ginnasio e poi al liceo: Aurea Roma. Dopo una lunga tappa a Mediolanum, sede di ducati, vicereami, governatorati ma che non fu mai capitale se non nel IV secolo, non per forza propria ma per una decisione imperiale.
Quell’Impero che gli diede anche un abile funzionario per governarla come politico, ma che il popolo milanese acclamò come suo vescovo e che si chiamava Ambrosius. Da una ventina d’anni sto sul Benàco, che solo assai tardivamente si chiamò lago di Garda, in quella Desenzano la cui principale attrattiva turistica sono i mosaici di una grande villa antica. Romana, naturalmente, proprietà di un Decentius che ha dato il nome alla cittadina. Ho lo studio in un’antica abbazia benedettina poco distante, costruita sulle rovine di un tempio dedicato a una divinità latina, Magutianus, da cui il nome del luogo: Maguzzano.
Da Roma, insomma, non ci si libera. È un destino comune a tutti gli italiani. Nessuno di loro può sfuggire al legame con quella che non a caso la tradizione chiamò l’Urbs, la città per eccellenza, a cominciare dal primo segno identitario, la lingua: anche se ci esprimiamo in un dialetto, quale che sia, il nostro mezzo per comunicare è segnato in modo indelebile dalla lingua del Latium Vetus.
Ma, nel mio caso, la dipendenza da Roma fu accresciuta, e di molto, dalla scoperta, verso la fine degli studi universitari, di una prospettiva cristiana, anzi esplicitamente cattolica, che sino ad allora la mia formazione laica aveva rifiutato. Alle influenze e alla reminiscenze culturali della Roma antica, aggiunsi così l’adesione all’insegnamento di colui che è, innanzitutto, il vescovo di Roma (la sua benedizione solenne è Urbi e solo dopo Orbi) e mi feci attento all’insegnamento che mi veniva e mi viene – in latino, almeno nel testo originale dei documenti – da un colle accanto al Tevere, in epoca antica malfamato, ma illustrato poi dal sangue dei martiri e chiamato Vaticanum. La liturgia cui partecipo la domenica è quella detta, non a caso, romana e la fede mi assicura che sulle rive del Tevere sta il mistero di una Chiesa che, malgrado gli sfregi del suo volto istituzionale e le indegnità di certi suoi uomini, conserva il segreto della vita e della morte.
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Dunque, per tornare alla identità: quando sono a Roma non solo non sento estranei i resti della città antica, ma riconosco in essi, d’istinto, una famigliarità che non è soltanto culturale bensì scende ben più in profondo. E mi sento a casa, naturalmente, tra le navate solenni delle basiliche venerande e mi aggiro con sentimenti filiali nella selva delle cento chiese di ogni epoca e di ogni stile. Avverto qui, insomma, la mia identità di uomo di cultura e di uomo di fede. Ma che ne è della mia identità nazionale? Davvero, sentendomi in molti modi erede della Roma pagana e figlio della Roma cristiana, davvero mi sento pure partecipe di quella che fu detta dai risorgimentali la Terza Roma, la Roma italiana? Mi inorgoglisco forse – da provinciale giunto nella sua capitale – contemplando l’immensa montagna di botticino in onore di re Vittorio Emanuele e trasformato poi in Altare della Patria? Lo confesso: anche se volessi emozionarmi, ne sarei impedito dal fatto che, vivendo nella provincia di Brescia, non ignoro che le cave di botticino sono bresciane e che la scelta, tecnicamente ed economicamente rovinosa, di rinunciare al vicino e assai meno costoso travertino fu imposta all’architetto Sacconi quando il ministro competente era Giuseppe Zanardelli, capo della massoneria guarda caso bresciana. Mi rassicuro della saldezza delle istituzioni nazionali ammirando l’ammasso tra eclettico e baroccheggiante del Palazzo di Giustizia o i pastiches dei ministeri ottocenteschi o la mole austera della Banca d’Italia? Lo confesso: un diavoletto mi fa venire in mente il fallimento della Banca Romana e lo scoppio della bolla immobiliare di fine Ottocento, enorme truffa per erigere la nuova città del rigore laico, contraltare del malgoverno vaticano. Insomma, il mio essere italiano si riconosce nella città in cui gli italiani entrarono a cannonate, non essendo riusciti, malgrado gli sforzi e i denari profusi, a provocare una rivolta dei romani contro il Papa Re che desse un alibi alla conquista?
Sono lontano, sia chiaro, da rivendicazioni da zuavo pontificio, anzi sto del tutto solidale con Paolo VI che il 20 settembre del 1970 inviò il suo vicario a celebrare una Messa a Porta Pia e riconobbe il carattere provvidenziale della liberazione della Chiesa dal peso del potere temporale. Era quello Stato pontificio che Pio IX chiamava «una gran seccatura» ma al quale non poteva rinunciare, consapevole che la libertà della Chiesa è assicurata solo da un territorio, per quanto esiguo, su cui abbia piena sovranità. Per non fare la fine dei papi ad Avignone, divenuti cortigiani del re di Francia, o del patriarca di Costantinopoli, suddito del Basileus, il Papa deve essere necessariamente anche re, sia pure, com’è il Vaticano, del più piccolo territorio del mondo. Non dimenticate che la sua estensione è meno di mezzo chilometro quadrato: ma fu quanto bastò per fermare sulla linea gialla di confine persino i paracadutisti tedeschi.
Se permettete un altro cenno personale, la mia ormai remota tesi di laurea, guidata da Alessandro Galante Garrone, fu, guarda caso, in storia del risorgimento. Sono dunque ben consapevole della complessità di un fenomeno storico che, per ottenere un fine buono, usò mezzi anche molto cattivi. È comunque lontano da ogni anacronismo da intransigente ottocentesco se, pur lieto di essere cittadino italiano, confesso al contempo di pensare che non avesse torto il realismo di Theodor Mommsen che ammoniva Quintino Sella, il biellese sparagnino che pur non voleva badare a spese pur di costruire qui i ministeri, a cominciare ovviamente da quello, colossale, delle Finanze: «Che venite a fare a Roma? Sarete schiacciati da tanta grandezza». E ho spesso sospettato che avesse le sue ragioni un altro storico tedesco innamorato di Roma, Ferdinand Gregorovius: «Della città da sempre cosmopolita farete la capitale di un Regno di second’ordine. Comunque vada, con voi finirà la vocazione universale dell’Urbe. La vostra capitale non rinnoverà ma rimpicciolirà la gloria di questa Weltstadt, la città-mondo». Si sa come replicasse il massone Sella: «Della Terza Roma noi faremo la capitale della nuova fede che sta mutando e muterà il mondo: la Scienza».
Non starò a raccontare, ovviamente, quel che successe nei molti decenni che seguirono. Ricordo soltanto che grande fu lo sforzo del fascismo per rendere gli italiani nuovamente fieri di Roma, per creare la famosa identità dell’Italia nella sua capitale, imponendo tra l’altro che ogni Comune le dedicasse la via più importante. Ma, per la consueta eterogenesi dei fini, l’orgogliosa Roma sedicente imperiale si rovesciò pochi anni dopo nella Roma miserabile, sgangherata, polverosa, imbrogliona dei film neorealistici e poi delle commedie di costume dette all’italiana. In realtà, molto spesso, commedie solo alla romana. Alberto Sordi fu un grande attore e, con i limiti di noi tutti, ovviamente, anche una persona perbene. Tra l’altro, un credente sincero. Ma la sua efficacissima maschera contribuì a fissare nell’immaginario degli italiani l’idea di una capitale, sì, ma della cialtroneria, dell’inciucio, della inettitudine statale, della pigrizia, dell’approssimazione. Al massimo (e penso ad un’altra icona romanesca, l’anch’egli bravissimo Claudio Villa), una città di mandolinari e da Festa de noantri. In generale, il greve accento romanesco che ha tracimato, nei decenni del dopoguerra, dagli altoparlanti della radio e dagli schermi sia del cinema che della televisione ha contribuito in modo prepotente ad aumentare, almeno al nord, il senso infastidito di estraneità. Non enuncio di certo una novità scandalosa, ribadendo che, padano che vive tra i padani, so bene come Roma capitale sia sentita come un peso e non come un vanto. Sui pilastri dei cavalcavia e su ogni muraglia disponibile del Nord non è sbiadito, anzi è periodicamente ridipinto, lo slogan, per demagogico che sia, «Roma ladrona». In quegli stessi spazi stava scritto, sino a meno di 70 anni, l’altro slogan: «Roma doma». Dalle nostre parti, l’idea federale è stata accolta con speranza e sollievo dalla maggioranza, senza neppur voler discutere di pregi e pericoli (che pur ci sono), proprio per allentare i legami con la Capitale sognata dalle utopie dei patrioti ottocenteschi e dalla megalomania del fascismo.
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Intendiamoci: conosco la diffidenza e l’avversione della provincia francese verso l’ingorda Parigi o il rancore gallese e scozzese nei riguardi della Londra pigliatutto. Ma in quei Paesi l’ostilità si accompagna alla ammirazione per la potenza e il prestigio di cui godono le capitali come metropoli moderne. Da noi, invece, l’estraneità si fonda anche sul dispregio per una città considerata parassitaria, divoratrice di risorse delle province eppure, al contempo, inefficiente, pigra, sbruffona. Ricordo come Luigi Firpo, che mi fu docente di storia delle dottrine politiche, da deputato si adoperasse perché non fossero concessi fondi a Roma per il suo ruolo di capitale, dicendo che erano soldi buttati, che ogni aiuto avrebbe aumentato non l’efficienza urbana ma la corruzione. Mi disse una volta di essere sorpreso constatando che ogni sera, malgrado tutto, si accendevano i lampioni per le strade. Ma, aggiungeva, ad ogni momento il miracolo poteva interrompersi e, in ogni caso, ogni due lampade una era bruciata e nessuno pensava a sostituirla. Insomma, è giocoforza riconoscere che al prestigio universale per l’antica Urbe e alla venerazione cattolica per la sede del successore di Pietro non corrisponde alcunché di simile per la Capitale d’Italia. Porta Pia e la sua retorica visionaria non hanno portato a una identificazione solidale della Nazione con la Città Eterna. Auspici? Buoni consigli? Parole edificanti di esortazione? Ma no, chi pratica la storia e rispetta le sue costanti, le sue “lunghe durate”, le sue derive inevitabili, è troppo realista per pensare che le esortazioni di politici e intellettuali possano modificare le cose. Invece che strategie retoriche e illusorie si possono al massimo proporre piccole tattiche concrete. Ad esempio, signor Sindaco: l’assicuro che poche cose confermano nei pregiudizi negativi chi viene da altrove, poche cose ostacolano il rispetto verso la propria Capitale, poche cose, dunque, come la vista della città completamente imbrattata da graffiti idioti.
Sopra e sotto, dunque anche nelle stazioni e sui treni della metropolitana, già risibile per una metropoli. Un volto sfigurato dalle bombolette, una sensazione di sporco e di abbandono, dietro cui l’italiano di altre città vede da un lato la Roma dei teppisti e degli asociali e dall’altro il menefreghismo e l’indolenza di chi dovrebbe provvedere e non provvede. Signor Sindaco: perché ovunque altrove, nelle Capitali del mondo, i graffitari imbecilli hanno dovuto cambiare divertimento e qui continuano impuniti, nel lassismo generale?
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Comunque, non dimentichiamo che, anche nel caso di una mutazione epocale come metropoli moderna ed efficiente, qui rimarrebbe pur sempre la sede della politica, del Parlamento, dei partiti, degli enti pubblici. Realtà, tutte, che svegliano sempre, e sempre sveglieranno, la polemica se non il qualunquismo della gente. Osservo al proposito che tutto il Nord riconosce, volente o nolente, il predominio economico e finanziario di Milano. Ma a Torino, a Venezia, a Bologna, a Genova non si ha alcun desiderio – ben al contrario! – di riconoscerla come nuova capitale da cui ricevere ordini e leggi e dove inviare deputati. I muri della Padania ospiterebbero, in un simile caso, la nuova scritta: «Milano ladrona». Di più: all’interno delle regioni stesse, la città capoluogo spesso non è affatto amata. Lo storico lo sa bene: l’Italia non è, per istinto e storia, nazionale; e nemmeno regionale o provinciale. L’Italia è municipale e proprio il campanilismo, per molti, è tra i suoi limiti da contrastare. È una condanna che non condivido: il policentrismo fu giudicato negativo, da superare con la forza, solo a partire dalla Rivoluzione Francese e poi dal Primo e dal secondo Impero, seguiti in questo dalla Terza Repubblica, che imposero, tutti, il centralismo dei prefetti. Il policentrismo fu combattuto sia dalle democrazie di ispirazione francese (ma non da quelle anglosassoni) sia dai totalitarismi, neri o rossi che fossero. Per quanto conta, ho sempre pensato che il nostro storico decentramento – l’Italia delle cento città – non sia un problema da superare ma una ricchezza da coltivare. Figlio riconoscente e devoto, vi dicevo, sia della romanità classica che di quella cristiana, amo e vorrei rispettare anche la Roma italiana. Ma, al contempo, sono lieto che non sia divenuta l’idrovora insaziabile che succhia la linfa vitale della nazione intera. Roma non esaurisce l’Italia, come avviene per le Capitali di altri Paesi? Trasferirsi nel centro della Nazione è una scelta e non un destino ineluttabile come avviene per un giovane ambizioso francese o inglese? Beh, credo non sia un male uno dei tanti doni di cui la Provvidenza ci è stata prodiga.

 

IL TIMONE  N. 96 – ANNO XII – Settembre/Ottobre 2010 – pag. 64 – 66

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