Che cosa ci guadagniamo ad essere cattolici? Ci viene in tasca qualcosa se viviamo secondo certi precetti imposti dalla fede e insegnati dalla Chiesa?
Non vi sembra, invece, che molti di quelli che vivono “come se Dio non ci fosse” godano di libertà che noi non possiamo permetterci? Che si “divertano” allegramente, sfruttando certe “occasioni” che la vita offre loro, e che noi dobbiamo piuttosto evitare?
Se domande come queste fanno capolino, di tanto in tanto, nella nostra mente, non preoccupiamoci. Ma quando accade dobbiamo saper rispondere con chiarezza e senza indugio. Memori che il diavolo ha tentato Adamo ed Eva cominciando a far domande apparentemente innocue. I due hanno prima abboccato e poi sbagliato a rispondergli. E come è andata a finire lo sappiamo tutti.
Vale dunque la pena richiamare, almeno sinteticamente, alcune verità che confermano certe nostre scelte.
Dunque, che vantaggio abbiamo ad essere cattolici e a vivere come tali?
Prima di tutto, ci guadagniamo il Paradiso. Che cosa sia è impossibile dirlo compiutamente, ma che si tratti di splendida, grande, straordinaria realtà lo ha detto il Signore: «A che giova guadagnare il mondo intero se poi perdete l’anima», e chi ha avuto la grazia di “farci un giro”: «Conosco un uomo in Cristo che, quattordici anni fa – se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito fino al terzo cielo. E so che quest’uomo – se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunziare» (San Paolo).
C’è un altro vantaggio: la fede ci svela anche il senso dell’esistenza. Grazie ad essa, noi sappiamo perché siamo al mondo, da dove veniamo e dove siamo diretti. Non è cosa di poco conto, questa consapevolezza, perché dubbi o incertezze esistenziali provocano generalmente angosce e timori. Quando non sa rispondere, l’uomo può fuggirvi, non pensarci, come fanno le bestie. O deprimersi. O suicidarsi. Bella fine, davvero! La fede, invece, una risposta me la offre, e con una buona e convincente dose di ragionevolezza. Ancora: la realtà più dura che l’uomo incontra nella vita è quella che chiamiamo “croce”. La peggiore, perché è dolorosa, talvolta smisuratamente penosa. Ciascuno ha – o avrà – la sua, nessuno vi sfugge. Solo che, senza Dio e senza fede, quella croce è insopportabile. Perché non ha significato, è pura, disumana, incomprensibile crudeltà. La fede, invece, se non la elimina, le dà però un senso, uno scopo e insegna che persino la morte non è l’ultima parola dell’umana avventura. Se poi avessimo tanta fede quanto è “grande” (!) un granellino di senapa, si schiuderebbe addirittura la possibilità di trasformare la croce in gioia, fino ad amarla e desiderarla.
È, questa, una eventualità “scandalosa” e incomprensibile per il “mondo” senza Dio, ma realmente offerta al cristiano. Qualche santo, per esempio, soleva dire: «È sì grande ciò che aspetto che ogni pena mi è diletto!».
Va bene, direte, ma noi non siamo a quel livello È vero. Però possiamo arrivarci.
Anche per questo, essere cristiani conviene.
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IL TIMONE n. 104 – Anno XIII – Giugno 2011 – pag. 3