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15.12.2024

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A Roma c’è la tomba di Pietro
31 Gennaio 2014

A Roma c’è la tomba di Pietro

 

 

Le fonti cristiane dei primi secoli, l’archeologia e l’epigrafia, confermano un dato che non può ancora essere ignorato o messo in discussione: le ossa sotto la Basilica Vaticana appartengono all’Apostolo.
Pietro venne due volte a Roma: all’inizio del Regno di Claudio, nel 42, quando, sfuggendo all’arresto di Agrippa I, “se ne andò e si mise in viaggio per un altro luogo” (At 12,17); e al tempo di Nerone, intorno al 62, quando scrisse da Roma la sua prima lettera e subì poi il supplizio della croce in seguito all’incendio neroniano.
Nella prima occasione, che autorevoli fonti cristiane del II secolo, Papia di Gerapoli (Eusebio, H.E. II, 15 e III, 39, 15) e Clemente di Alessandria (Eusebio, H.E. VI, 4, 6 e fr. 9 Stahelin), collegano con la predicazione del Vangelo che Marco, su invito dei Romani, mise per iscritto dopo la partenza di Pietro, è evidente la menzione di Roma, definita Babilonia (Ezechiele 12,3 e 13,13), come destinazione dell’Apostolo. Il nome di Babilonia è usato qui allo stesso modo che in 1 Petri 5,13, come crittogramma per Roma: il ricorso ad un crittogramma rivela, come è stato giustamente sostenuto, l’antichità degli Atti e l’autenticità della 1 Petri, scritti certamente, gli uni e l’altra, mentre Pietro era ancora vivo e presente a Roma.
Il 62 è il momento della svolta neroniana: la lettera petrina risente del clima ormai mutato nell’impero e prevede l’imminenza di una persecuzione; di qui il ricorso a un crittogramma mirante a nascondere alla polizia dell’imperatore la presenza a Roma dell’Apostolo.
Ma gli eventi precipitarono: Nerone decise di applicare, forse già nel 63, il vecchio senatoconsulto che stabiliva l’illiceità del cristianesimo, e recepì in Giudea, con il cosiddetto editto di Nazareth, le accuse ai discepoli di aver sottratto dal sepolcro il corpo di Cristo, accuse che Matteo dice ancora vive al suo tempo fra i Giudei. Nel 64 infine, per allontanare da sé l’accusa dell’incendio di Roma, Nerone incriminò di esso i Cristiani e ne mise a morte una multitudo ingens, fra atroci sofferenze, negli horti Neroniani in Vaticano (Tacito, Annali XV, 44).
Il confronto fra Tacito e Clemente Romano (1 Cor 5: poly plethos) mostra che Pietro fu messo a morte con gli altri cristiani, il cui supplizio Nerone trasformò in spettacolo con un circense ludicrum: nel 64, non nel 67, come si è voluto ricavare attribuendo all’episcopato romano di Pietro i 25 anni che la tradizione più antica attribuiva al periodo fra la crocifissione e Nerone, “durante il quale i discepoli di Cristo posero i fondamenti della Chiesa, in tutte le province e città” (Lattanzio, De mortibus persecutorum II, 4).

La trasformazione del supplizio in spettacolo, con l’accenno di Tacito a uomini dilaniati dai cani ferarum tergis contecti e di altri crucibus adfixi atque flammati, e l’accenno alle donne cristiane camuffate da Dirci e da Danaidi, di cui parla Clemente, fanno pensare, assieme a un circense ludicrum, a giochi dati dall’imperatore approfittando di una festività particolare, non certamente posteriore di anni all’incendio. La Guarducci ha pensato alle feste del 13 ottobre del 64, alcuni mesi dopo l’incendio, quando il permanere dei malumori popolari contro Nerone poté consigliare all’imperatore di cercare capri espiatori. Si tenga conto che, nel 66, Nerone andò in Grecia, e che già nel 65, con la repressione della congiura di Pisone, ebbe altro a cui pensare. Clemente associa alle molte vittime Pietro e Paolo, e questo rivela che il loro rispettivo martirio, anche se Paolo fu ucciso poco prima e per motivi indipendenti dall’incendio, deve essere avvenuto in epoche molto ravvicinate fra loro.
La Chiesa Romana ha sempre associato, del resto, nel martirio e nella venerazione, Pietro e Paolo come suoi cofondatori: infatti, pressoché contemporanea della lettera di Clemente (che io credo di età domiziana) è un’iscrizione certamente cristiana di Ostia (C.XIV, 566), dedicata da un membro della gens Annea, M. Anneus Paulus, al figlio carissimo M. Anneo Paulo Petro. E nel II secolo, al tempo di papa Zefirino, un presbitero della Chiesa di Roma, Gaio, parlando, in polemica con un montanista, dei luoghi dove erano stati sepolti gli Apostoli, osserva: “Io potrò mostrare i trofei degli Apostoli: se andrai in Vaticano e sulla via di Ostia, troverai i trofei di coloro che hanno fondato questa chiesa” (apud Eus., H.E. II, 25,7). Il luogo di sepoltura di Pietro è stato ritrovato sotto la Basilica Vaticana, in prossimità di quegli Horti, che erano stati di Druso, di Agrippina, di Caligola e di Nerone, dove il suo martirio era avvenuto e dove i pellegrini lasciarono con graffiti il segno della loro devozione.
È merito soprattutto di Margherita Guarducci (la più grande, forse, epigrafista dei nostri tempi, scomparsa da pochi anni) avere individuato, con un’indagine condotta per molti anni in mezzo a difficoltà e a polemiche, e attenta sempre ai dati risultanti dalle fonti e alle conferme emergenti da un lavoro interdisciplinare, la tomba e le reliquie di Pietro.
I punti fondamentali della dimostrazione della Guarducci sono i seguenti:
1) Sotto la Basilica costantiniana e nelle sue immediate vicinanze esisteva un sepolcreto le cui tombe più antiche risalgono al I secolo d.C., all’epoca cioè del martirio dell’Apostolo.
2) Sotto il luogo nel quale, nell’attuale basilica, sorge l’altare papale, c’è un’edicola funeraria risalente al 160 circa d.C. e da identificare con il “trofeo” di cui parla Gaio.
3) Sul “muro rosso”, a cui l’edicola è addossata, c’è un graffito in greco databile alla stessa epoca dell’edicola, con le parole Petros eni, “Pietro è qui dentro”.
4) Il cosiddetto “muro g”, vicinissimo all’edicola, è pieno di graffiti, risalenti al III e IV secolo, che invocano, con un singolare sistema di crittografia mistica (applicando valori simbolici ad alcune lettere, congiungendo due o più lettere per esprimere concetti religiosi, trasfigurando lettere in simboli cristiani) i nomi di Cristo, Maria e Pietro, e rivelano la devozione dei pellegrini.
Le ossa di Pietro si trovavano originariamente sotto l’edicola del II secolo, e furono poste, al tempo di Costantino, nel loculo marmoreo apprestato nello spessore del “muro g”, avvolte in un drappo di porpora intessuto d’oro di cui sono stati ritrovati, con le ossa, alcuni frammenti: esami merceologici e chimici hanno dimostrato che essi appartengono a una stoffa finissima, tinta di autentica porpora di murice, intessuta di oro purissimo. In quanto alle ossa, esse hanno rivelato un individuo adulto, di sesso maschile, di età senile fra i 60 e i 70 anni.
Il 26 giugno 1968 Paolo VI annunziò pubblicamente l’avvenuto riconoscimento delle reliquie di Pietro.

BIBLIOGRAFIA

M. GUARDUCCI, La tomba di Pietro, Roma 1959.
M. GUARDUCCI, La tomba di San Pietro: una vicenda straordinaria, Milano 1989.
C.P. THIEDE, Simon Pietro dalla Galilea a Roma, trad. it. , Milano 1999, p. 291 ss.
E. GRZYBEK, Les premiers chrétiens à Rome, in Neronia VI, Coll. Latomus, vol. 268, 2002. p. 565 ss.
AA.VV., Pietro : la storia, l’immagine, la memoria, Venezia 1999.

 

 

 

 

 

IL TIMONE – N. 29 – ANNO VI – Gennaio 2004 – pag. 28 – 29
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