La pillola RU 486 introduce l’aborto fai da te. Sperimentata in un ospedale piemontese. Diabolico obiettivo: aggirare l’obiezione di coscienza di medici e infermieri antiabortisti e rendere la donna unica protagonista dell’uccisione del suo bambino.
Il grande scienziato francese Jérome Lejune l’aveva definita senza troppi giri di parole: un “pesticida umano”. Ora la RU 486, la pillola che provoca l’aborto se assunta entro il secondo mese di gravidanza, è sbarcata anche in Italia. Il via libero è arrivato dal comitato etico della regione Piemonte, che nell’ottobre 2002 ha approvato la sperimentazione di questo prodotto chimico presso l’ospedale Sant’Anna. Dal gennaio 2003 i nascituri di Torino cominceranno a essere uccisi con questo nuovo sistema, che verrà testato su 400 donne incinte.
Che cos’è la RU 486
La RU 486 è un prodotto chimico a base di Mifepristone, un potente antiormone che interrompe l’annidamento dell’embrione nell’utero e provoca l’aborto del concepito. La RU 486 – che non può essere definita un farmaco, poiché non serve a curare una patologia – viene assunta dalla donna come una normale pastiglia. Trascorsi tre giorni, i medici somministrano alla madre una sostanza che induce le contrazioni e provoca l’espulsione dell’embrione nel 60% dei casi. Poiché la procedura è dolorosa e non esente da complicanze per la donna, per ora la somministrazione della pastiglia avvenire in ambiente ospedaliero, dove la donna stessa verrà tenuta in osservazione per alcune ore dopo l’aborto, e visitata di nuovo circa 15 giorni dopo.
Un po’ di storia
La RU 486 è stata prodotta dai laboratori della Roussel Uclaf, una società controllata dal Governo francese e dal gruppo tedesco Hoechst. Non è un caso che nella genealogia delle aziende chimiche tedesche compaia anche la I.G. Farben, che produceva il famigerato Zyclon B., il gas omicida usato da Hitler. La RU 486 è usata da 10 anni in Francia, mentre è sbarcata negli Usa nel 2000. Un comunicato stampa del 23 giugno 1988 dimostra il coinvolgimento dell’Onu nella realizzazione del prodotto: è la stessa Roussel Uclaf a dichiarare di “averlo sviluppato in collaborazione con l’Organizzazione mondiale della sanità e l’Unfpa”, che sono agenzie Onu. È evidente che il prodotto sarebbe utilissimo per “diradare” la popolazione dei paesi poveri, soprattutto dove non esistano presidi chirurgici adeguati per promuovere l’aborto su scala mondiale.
In Italia, di RU 486 si iniziò a parlare nel 1989, quando l’allora sottosegretario alla sanità, la socialista Elena Marinucci, ne caldeggiò (senza successo) l’adozione nel nostro Paese.
Ora l’operazione è riuscita per iniziativa dei soliti radicali e di alcuni medici abortisti in quella Torino che è la città di don Bosco, ma anche della massoneria e del satanismo. Nulla avviene per caso.
Aspetti giuridici
1. La prima considerazione da fare è che la RU 486 non è che uno fra i modi con cui è possibile uccidere un innocente. Viene presentata come uno strumento “umanitario” così come i giacobini offrirono alle vittime del Terrore la ghigliottina, considerata “umanitaria” rispetto alla fucilazione e alla forca. La conclusione era in entrambi i casi la morte dei condannati. Dunque, la radici di ogni male è rappresentatola una legge integralmente iniqua – come la 194/1978 nel caso dell’Italia – che ammette l’autodeterminazione della donna, affidando al suo totale arbitrio la vita del concepito. Posto questo principio aberrante, tutto diventa possibile.
2. Uno degli scopi meno evidenti, ma più diabolici della Ru486 è l’aggiramento dell’obiezione di coscienza. Potrà accadere infatti che, un aborto chimico “iniziato” qualche giorno prima, presenti delle complicanze tali da richiedere l’intervento del personale ospedaliero. A questo punto, in casi di urgenza e rischio per la salute della donna, un medico o un infermiere obiettore di turno si vedranno costretti dalla legge a continuare l’opera nefanda dei colleghi abortisti.
3. Nel consenso informato che viene firmato dalla donna prima dell’inizio del “trattamento”, la gestante viene avvertita che in caso di “fallimento” – vale a dire se il nascituro sopravvive alla dose di veleno – il nascituro andrà incontro a rischi per la sua salute, e in ogni caso l’aborto potrà essere ottenuto a quel punto solo con un intervento chirurgico.
4. Va anche aggiunto che questa pastiglia rende la donna protagonista dell’atto abortivo: è lei che “dà la morte” al proprio figlio, ingerendo la Ru486. Si invertono i ruoli tipici dell’aborto chirurgico: il medico non più protagonista, ma assistente; la donna non più passiva, ma protagonista dell’atto omicida.
Verso l’aborto “fai da te”
1. Ove la RU 486 venga usata dentro le procedure previste dalla 194, essa difficilmente può essere dichiarata “fuori legge”, almeno nel senso formale del termine. Diverso è il discorso di un suo utilizzo “privatistico”, che configurerebbe una violazione palese delle pur blande misure di controllo poste dalla 194.
2. L’aborto avviene oggi normalmente con modalità chirurgiche particolarmente raccapriccianti.
La donna deve sottoporsi a un intervento, all’anestesia totale, e ai rischi per la sua salute (pur modesti) connessi all’intervento. La RU 486 risponde al tentativo di rendere sempre più normale, semplice, sicuro e nascosto l’aborto.
3. In una prima fase, questo obiettivo è piuttosto arduo da raggiungere, perché con la RU 486 la donna vive per certi versi in presa diretta l’aborto molto più che nell’atto chirurgico: trascorre tre giorni sapendo che ormai ha attivato una procedura inarrestabile di avvelenamento del figlio, inarrestabile anche in caso di ripensamento; e “vede” il figlio espulso da sé come un vero e proprio rifiuto. Orribile.
4. Ma, d’altro canto, non si che deve sottovalutare la possibilità di perfezionare questa arma chimica, tentando di eliminare i rischi di sanguinamento, la dolorosità, la “visibilità” dell’embrione espulso; affinandola insomma a tal punto da renderla agibile in farmacia come un normale prodotto da banco.
5. Si realizza in questo modo l’ultimo stadio della “normalizzazione” dell’aborto, che così sembra scomparire dalla società perché sfugge a ogni rilievo statistico e a ogni azione dissuasiva dei pro life, per diventare una faccenda completamente privata. Con la conseguenza di un incallimento delle coscienze che rende – in questo senso – più grave l’aborto chimico di quello chirurgico. Come scrisse Francesco Migliori, “Caino non deve più nascondersi” .
La punta di un iceberg
Attenzione: il polverone sollevato dalla RU 486 non deve distrarci dalla corretta percezione della realtà: oggi, in Italia, l’aborto chimico è già attuato nella totale indifferenza delle leggi e dei codici deontologici della classe medica.
Le donne usano la spirale o IUD, senza sapere che essa non è un contraccettivo ma provoca aborti. Inoltre, per iniziativa dell’ex ministro della sanità Umberto Veronesi, è disponibile in farmacia il Norlevo, prodotto dall’Angelin farmaceutica: una “pillola del giorno dopo” che provoca l’aborto ogni volta che sia assunta a seguito di un rapporto fertile. L’attuale ministro potrebbe ritirare questo prodotto con provvedimento analogo ma opposto a quello del suo predecessore, per sospetta compatibilità con la legge 194 vigente.
Effetti abortivi possono essere ottenuti attraverso l’uso combinato di pillole regolarmente in commercio, prodotte con finalità contraccettiva, ma capaci di impedire l’annidamento se miscelate in un certo modo. Perfino la classica pillola, assunta dalla donna con l’intento di impedire il concepimento, ha un effetto remoto ma assolutamente certo di carattere abortivo: una verità scomoda troppo spesso taciuta. Ne riparleremo.
RICORDA
“C’è qualcosa di terribilmente repellente in questa procedura. La giustificazione che nobiliterebbe il ricorso al nuovo veleno è che il rischio di complicanze per la madre diverrebbe irrilevante. Da dove nasce questo rischio? Da una decisione sommamente ingiusta e liberamente presa, quella di uccidere l’innocente. Si abbia il coraggio di dirlo apertamente: si è finalmente scoperto il modo di uccidere nel quale l’assassino non corre più alcun rischio serio”.
(L’Osservatore Romano, 12 novembre 1989).
IL TIMONE N. 23 – ANNO V – Gennaio/Febbraio 2003 – pag. 6 – 7