«Ho combattuto a lungo con le conseguenze del mio aborto. I tentativi fino ad allora compiuti per mettermi l’animo in pace non avevano avuto successo. Ciò che questa volta era diverso era l’assoluta e completa presa di coscienza del bambino ucciso. Egli non era più solamente “un pezzetto di tessuto” o “una sacca di sangue” che aveva cessato di esistere.
Molto del dolore che ho provato negli anni è stato per questo essere umano non nato, rifiutato e rinnegato. Così quando lei ha detto “Puoi dare un nome al tuo bambino”, qualcosa in me è cambiato. Non dimenticherò mai quelle parole, perché egli dopo è diventato un bambino, recuperato dal secchio della spazzatura nel quale era stato tanto brutalmente gettato. Grazie per averlo riconosciuto, per avermi aiutato a ritrovarlo, per avergli restituito la dignità che io gli avevo negata. Ora posso essere un po’ più tranquilla con me stessa, sapendo che egli è stato innalzato dagli abissi fino ad essere posto amorosamente nelle mani di Dio».
Questa è la drammatica testimonianza di una mamma che ha ucciso il proprio bambino, e che a lungo si è tormentata, nella solitudine e nel silenzio, per il crimine commesso; fino al momento in cui ha incontrato qualcuno che, senza banalizzare l’aborto ma anzi, chiamandolo per nome, ha ascoltato il suo tormento e l’ha accompagnata a chiedere perdono.
Le conseguenze psicologiche dell’aborto sono, tra le conseguenze di questo dramma, forse quelle ignorate più volentieri. Da parte degli abortisti, perché sarebbero costretti ad ammettere che l’aborto è un dramma, e non, banalmente, “un diritto”; ma spesso anche da parte di chi si batte per il rispetto della vita, perché, accogliendo il dolore della madre, ha l’impressione di minimizzare la gravità dell’omicidio del figlio. Eppure è una grave realtà, che siamo tenuti a prendere in considerazione con la serietà che merita.
Le donne che vivono l’avvenimento tragico della morte del proprio figlio prima della nascita vivono un profondo stato di malessere; tale malessere è ancora più doloroso nel caso dell’aborto procurato, poiché coloro che hanno scelto volontariamente di abortire vivono con consapevolezza la responsabilità di aver acconsentito all’uccisione del proprio figlio. Esse sono le vittime invisibili della superficialità con la quale viene praticato l’aborto, spesso senza neppure prendere in considerazione gli strumenti di prevenzione e dissuasione previsti dalla legge.
Secondo numerose ricerche, le donne che hanno abortito hanno una mortalità superiore alle altre; questa mortalità è dovuta anche al ricorso al suicidio, che ha una frequenza sette volte maggiore per le donne che hanno abortito. Oltre a questo, le donne che hanno vissuto un aborto volontario mostrano una maggiore incidenza di ansia, depressione e disturbo post-traumatico da stress. Più frequenti sono anche i ricoveri psichiatrici e l’abuso di alcolici.
Può accadere che alcune di queste donne, credendosi escluse dalla redenzione, entrino in un circolo vizioso fatto di promiscuità e aborti, non di rado culminante nell’abbandono della fede. Esse non chiedono un aiuto ad anestetizzare il dolore, a dimenticare l’aborto, a vivere “come se non fosse accaduto nulla”; perché esse sanno che “qualcosa” è accaduto e non cessano di tormentarsi fra incubi e sensi di colpa. Chiedono piuttosto qualcuno con cui condividere la loro pena e che le aiuti ad affidarsi alla misericordia di Dio.
L’Ufficio per la Famiglia e il Rispetto della Vita dell’Arcidiocesi di New York ha dato il via ad un progetto ora diffuso in molte diocesi degli Stati Uniti. Si tratta del Progetto Rachele, che prende il nome da un versetto biblico: «Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più» (Mt. 2,18); gli operatori del Progetto Rachele sono in genere sacerdoti e psicologi appositamente formati per offrire un sostegno spirituale o psicologico (oltre alla riconciliazione sacramentale, in caso di aborto procurato) alle donne che hanno vissuto questo dramma e a tutti coloro che sentono di aver avuto un ruolo nell’aborto. Anche madri, amiche e mariti, infatti, si possono rivolgere agli operatori del Progetto Rachele per avere ascolto e conforto. Sul sito del Progetto Rachele (
www.hopeafterabortion.com) si trovano diverse testimonianze toccanti. Eccone alcuni stralci.
Karlie: «Non voglio mentire. È stato un percorso difficile. Devi guardare onestamente in te stessa, ed è spaventoso rendersi conto di quanti limiti abbiamo. Per quelle di noi che hanno abortito, spesso le cose che dobbiamo realmente fronteggiare sono anzitutto le stesse paure che ci hanno spinto a scegliere di abortire. Il paradosso è che affrontare queste cose – paura dell’abbandono, narcisismo, orgoglio… – è l’unico modo per liberarcene. Non importa quando duro sia il percorso, non è mai difficile quanto ciò che stiamo vivendo».
Jill: «Infine sono stata capace di guardare oltre me stessa e di pensare al mio bambino, sono giunta ad amarlo, e quindi ad affliggermi per lui. E sono stata in grado di capire realmente il perdono di Dio, di capire che tutte le mie auto-punizioni e le mie sofferenze non avrebbero potuto espiare il mio aborto, che nulla avrebbe potuto porvi rimedio, e che Gesù è morto in croce per il mio aborto e per tutti gli altri miei peccati, e ha pagato pienamente per essi».
Le persone che si rivolgono agli operatori del Progetto Rachele trovano uno spazio di ascolto e sono invitate ad intraprendere un cammino di riscoperta della misericordia di Dio, che le ama malgrado, o addirittura a causa, della loro debolezza.
Anche in Italia è possibile aiutare le donne che hanno abortito e che vivono il dramma e la disperazione per il gesto compiuto. Si può telefonare, per esempio, alla sede della Federazione regionale Movimento per la Vita – Piemonte, al numero verde 800 59 00 05 (dalle 9 alle 12.30, da lunedì al sabato) e chiedere di Giuseppe Garrone.
«Non di rado la donna è sottoposta a pressioni talmente forti da sentirsi psicologicamente costretta a cedere all’aborto: non v’è dubbio che in questo caso la responsabilità morale grava particolarmente su quelli che direttamente o indirettamente l’hanno forzata ad abortire. Responsabili sono pure i medici e il personale sanitario, quando mettono a servizio della morte la competenza acquisita per promuovere la vita».
(Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, n. 59).
Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Evangelium vitae, 25 marzo 1995.
Mario Palmaro, Ma questo è un uomo, San Paolo, 1998.
IL TIMONE – N. 52 – ANNO VIII – Aprile 2006 – pag. 16 – 17