50 anni dopo l’inizio della decolonizzazione, l’Africa gode di pessima salute. Nonostante la libertà, la democrazia e l’ingente quantità di denaro della cooperazione. Perché questo incredibile “mal d’Africa”?
La seconda colonizzazione arabo-islamica
La seconda colonizzazione dall’impatto determinante è stata quella arabo- islamica iniziata nel VII secolo, subito dopo la morte di Maometto, avvenuta nel 632 d.C. Una serie di campagne militari realizzarono in pochi decenni la conquista di tutto il Nord Africa. Poi, più lentamente, l’invasione si estese ai territori sub sahariani raggiungendo le coste dell’Oceano Atlantico e dell’Oceano Indiano. La colonizzazione arabo-islamica introdusse in Africa il concetto di umma, la comunità dei credenti, che trascende l’appartenenza strettamente etnica, e la scrittura; vi fece sorgere grandi regni e vi creò rotte commerciali continentali, grazie alle quali, però, si organizzò anche la tratta orientale degli schiavi che, nell’arco di quattordici secoli, ha sottratto al continente più di dodici milioni di persone: una cifra grosso modo pari a quella della tratta atlantica verso le Americhe, ma distribuita in un arco di tempo molto più lungo.
Entrambe le colonizzazioni, così come quella europea successiva, portarono sviluppo e benefici effetti, ma furono allo stesso tempo devastanti e spietatamente cruente. Tuttavia nella memoria collettiva degli africani e del mondo intero sembra restare soltanto il ricordo della brutalità di quella europea, dei suoi crimini e dei suoi danni, mentre dei suoi apporti positivi non è rimasta traccia.
La colonizzazione europea
Eppure non si può negare l’utilità delle tecnologie moderne importate dall’Europa di cui l’Africa, ancora alla fine del XIX secolo, mancava quasi del tutto. Più ancora appare inestimabile il messaggio di una religione, quella cristiana, che parla di un Dio misericordioso ed esorta a sperare, a non avere paura: per capirlo, bisogna aver sperimentato quanto la stregoneria in Africa paralizzi cuore e ingegno. Infine, vi è il valore supremo attribuito alla persona – «ogni creatura è bene» è la frase di san Paolo definita da don Luigi Giussani la più rivoluzionaria della storia della cultura –, la pari dignità riconosciuta a tutti gli uomini e la convinzione che esistano diritti inerenti alla condizione umana, quindi universali e inalienabili, in alternativa alle istituzioni tribali che fanno dipendere i diritti dallo status e quest’ultimo da fattori principalmente ascritti.
L’Africa di oggi comprende e rispecchia le tre grandi forze – civiltà tribale, arabo-islamica, cristiana-occidentale – che nei millenni ne hanno plasmato economia, società e cultura con effetti rivoluzionari, per certi aspetti inconciliabili e contrastanti.
Il fallimento dell’indipendenza
È stato appellandosi ai principi di uguaglianza e di giustizia sociale importati dall’Europa, insegnati e testimoniati da decine di migliaia di missionari cristiani nei più remoti angoli del continente, che negli anni ’60 del secolo scorso le élites africane hanno rivendicato l’indipendenza e hanno convinto i loro connazionali a ribellarsi. Dissero allora che l’affrancamento dalla madrepatria era indispensabile proprio per completare il processo avviato dalla colonizzazione europea: concludere la transizione verso un’economia industriale, creare moderni Stati e garantire a tutti gli africani il pieno godimento dei diritti proclamati nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. A tal fine alcuni adottarono economie di mercato e istituzioni democratiche, altri si schierarono con i regimi comunisti e ne scelsero il modello totalitario e statalista. Non ci volle molto però per capire che gli uni e gli altri, salvo poche eccezioni, non avevano interesse a realizzare cambiamenti promessi e che le popolazioni africane, per parte loro, del tutto impreparate al nuovo assetto politico, non erano in grado di controllarne e di orientarne l’azione esercitando i diritti acquisiti.
Malgoverno, corruzione sfrenata, ferrea repressione del dissenso politico e popolare, libertà fondamentali negate, diritti umani violati, brogli e violenze elettorali, guerre e colpi di Stato per assicurarsi il controllo esclusivo dell’apparato statale, inteso come mezzo per attingere a piene mani alle ricchezze nazionali e servirsene nel proprio interesse, a scapito di quello comune: non c’è Paese africano che se ne sia salvato e che non ne abbia pagato le conseguenze, prima fra tutte l’accentuazione delle tradizionali rivalità etniche e religiose. Intanto, per l’incuria delle istituzioni, carestie e malattie – tre pandemie in particolare: malaria, Aids, tubercolosi – falcidiavano adulti e bambini e la scarsità di lavoro nei settori moderni dell’economia privava una generazione dopo l’altra di un futuro, condannando milioni di giovani disoccupati a vivere di espedienti e trasformando così la più preziosa delle risorse, il capitale umano, in un sempre più grave e insanabile problema sociale e assistenziale.
Mentre, per ostentare le apparenze di uno sviluppo in realtà mancato – fastosi palazzi presidenziali, ville sontuose, “cattedrali nel deserto” prive di qualsiasi utilità – si sprecavano miliardi di dollari, attingendo alle casse statali, anche le ricchezze naturali, che si andavano via via rivelando quasi dappertutto immense, si mutavano da risorsa in maledizione – così si disse per la prima volta parlando del rame dello Zambia – per lo spreco che ne è stato fatto e per le sanguinose lotte di potere per impadronirsene che hanno scatenato. Se la “maledizione” dello Zambia è il rame, quella della Costa d’Avorio è il cacao, quella della Sierra Leone sono i diamanti, della Nigeria il petrolio. Tanto si teme l’avidità dei potenti e il male che ne può derivare che in questi mesi in Ghana, nuovo produttore di petrolio, l’ansia prevale nella popolazione che dovrebbe invece esultare pensando a nuove prospettive di benessere e progresso.
Al quadro così delineato si deve aggiungere un altro elemento onnipresente in Africa, la cooperazione internazionale allo sviluppo: un colossale impegno finanziario, una sorta di Piano Marshall, deciso all’indomani delle indipendenze per fornire ai governi africani i capitali, le tecnologie e le competenze professionali necessari a sconfiggere la povertà. Giustamente si è puntato tutto su tre fronti di intervento: il superamento delle economie di sussistenza tramite l’industrializzazione dei vari settori produttivi e la dotazione delle necessarie infrastrutture; la formazione di generazioni di giovani in buone condizioni di salute, economicamente autosufficienti e capaci di decidere di sé e da sé, grazie all’universale accesso ai servizi scolastici e sanitari; infine gli interventi umanitari, un tempo detti d’emergenza, per salvare le popolazioni minacciate da guerre e calamità naturali fornendo loro un rifugio sicuro, i beni essenziali e l’assistenza medica di base per tutto il tempo necessario a superare la crisi. Ma non ha funzionato. La cooperazione allo sviluppo ha speso oltre mille miliardi di dollari, erogati a vario titolo e con modalità diverse, senza eliminare le cause della povertà e riuscendo a mala pena, non sempre e non abbastanza, a lenire le sofferenze di un numero crescente di persone bisognose d’aiuto. Tra il 1970 e il 1998, il periodo in cui l’Africa ha ricevuto i maggiori contributi internazionali, la povertà è salita dall’11% al 66%: 30 anni fa, ad esempio, il Prodotto Interno Lordo del Burundi e del Burkina Faso era superiore a quello della Cina e nel 1961, quando ancora era colonia britannica, il Kenya aveva un PIL pro capite superiore a quello della Corea del Sud, mentre adesso il suo PIL è di 1.622 dollari l’anno e quello della Corea del Sud è di 29.326 dollari.
Kenya, Burkina Faso e Burundi sono rispettivamente al 128°, 161° e 166° posto nell’Indice dello sviluppo umano dello United Nations Development Programme mentre la Cina è all’89° posto e la Corea del Sud è al 12°. Ai capitali della cooperazione internazionale e a quelli derivanti dal commercio dei prodotti della terra e del sottosuolo, vanno aggiunte inoltre, per un valore altrettanto ingente, le rimesse di milioni di africani emigrati.
Dunque in Africa la povertà è aumentata proprio mentre il continente disponeva di una quantità di risorse astronomica, incomparabilmente superiore rispetto a qualsiasi altra epoca precedente. Basta questa constatazione per tracciare un bilancio negativo del mezzo secolo di indipendenza trascorso. La “rinascita africana”, di cui si è ripetutamente annunciato l’avvento, non è mai arrivata.
Dambisa Moyo, La carità che uccide, Rizzoli, 2010.
Linda Polman, L’industria della solidarietà, Bruno Mondadori, 2009.
Jacques Giri, Africa in crisi, SEI, 1991.
Axelle Kabou, E se l’Africa rifiutasse lo sviluppo?, L’Harmattan Italia, 2008.
Claudio Moffa, L’Africa alla periferia della storia, Aracne 2005.
Desiderio Pirovano, Poveri perché, Sperling & Kupfer, 1995.
Anna Bono, La nostra Africa, Il Segnalibro, 1998.
Piero Gheddo, Vangelo e sviluppo dei popoli, I Quaderni de Il Timone, 2009.
IL TIMONE N. 104 – ANNO XIII – Giugno 2011 – pag. 22 – 24
Riceverai direttamente a casa tua il Timone
Se desideri leggere Il Timone dal tuo PC, da tablet o da smartphone
© Copyright 2017 – I diritti delle immagini e dei testi sono riservati. È espressamente vietata la loro riproduzione con qualsiasi mezzo e l’adattamento totale o parziale.
Realizzazione siti web e Web Marketing: Netycom Srl