Il ruolo dell’esame di coscienza. La vergogna dei peccati come incentivo a non peccare più. La certezza del perdono attraverso le parole dell’assoluzione sacramentale. Le ragioni della ragione laica
a) Intanto, quando ci si rivolge interiormente a Dio, l’esame di coscienza e l’accusa dei propri peccati rischiano di essere abbastanza frettolosi perché – viene da pensare – «tanto Dio sa già tutto». Viceversa, chi deve riferire i propri peccati ad un sacerdote è portato ad essere più meticoloso, cioè l’esame di coscienza risulta più approfondito. Ciò è già di per sé utile non solo per fare una buona confessione, ma anche per riuscire a migliorare moralmente, perché essere chiaramente consapevoli dei propri difetti morali e delle proprie debolezze è un punto di partenza per guarirne.
b) Inoltre, è vero che confessarsi di fronte ad un uomo è faticoso e, per alcuni, motivo di umiliazione, ma ciò ha la sua fecondità. In primo luogo, questa sgradevolezza della confessione può essere già considerata parte (cioè insieme alla penitenza che il sacerdote assegna) della pena per il male commesso ed è poca cosa rispetto all’assoluzione di una colpa come il peccato, perché quest’ultimo offende Dio, il che è la cosa peggiore che l’uomo possa mai compiere. In secondo luogo, l’espiazione di una colpa richiede appunto una pena, ma ben difficilmente si può essere oggettivi ed equilibrati giudici di se stessi. In terzo luogo, la stessa sgradevolezza del peccato può essa stessa essere un incentivo a non peccare più, proprio per evitare ciò che è sgradevole. In quarto luogo, la “fatica” per ottenere l’assoluzione ce la fa apprezzare maggiormente, come tutte le cose che ci guadagniamo con un certo sforzo.
Ciò non toglie che i sacerdoti oggigiorno, purtroppo, raramente confessano dietro le grate e questo non aiuta affatto i penitenti ad avvicinarsi a questo sacramento, perché confessarsi viso a viso può (in alcuni) aumentare il senso di vergogna.
c) Il sacerdote, inoltre, dà anche dei consigli per evitare di commettere nuovamente le azioni malvagie che abbiamo compiuto (e può darli tanto più appropriati se il penitente si confessa abitualmente con la stessa persona, che dunque progressivamente lo conosce e può dargli delle indicazioni personalizzate).
d) Ancora, l’uomo non è un puro spirito, bensì una sintesi di spirito e corpo, profondamente compenetrati, che sono due dimensioni di un’unica entità (ne ho parlato su il Timone, n. 96, pp. 30-31). Ma, allora, poiché siamo anche corporei, abbiamo bisogno di gesti e atti corporei per esprimerci, e abbiamo bisogno di gesti corporei altrui nei nostri riguardi. Per esempio, l’amore (genitoriale, amicale, coniugale, ecc.) non è fatto solo di pensieri interiori, bensì si esprime anche attraverso la pacca sulla spalla, l’abbraccio, la carezza, il bacio, ecc. Per analogia, anche chi si confessa ha bisogno di sentire materialmente con le sue orecchie fisiche il sacerdote che gli dice: «io ti assolvo dai tuoi peccati, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Ne ha bisogno per essere certo che Dio lo abbia davvero perdonato. Se la confessione fosse solo interiore, come potrebbe egli sapere di essere stato perdonato? Solo se avesse una locuzione interiore. Ma, anche in questo caso, come sapere che non si tratta solo di un’autosuggestione?
È vero che alcuni sacerdoti sono indegni del loro ruolo e del sacramento che amministrano. Ma, come ha già magistralmente spiegato nel V secolo sant’Agostino (nella polemica contro i donatisti), l’efficacia di ogni sacramento non dipende dalla santità o indegnità del ministro, bensì dalla potenza di Dio, di cui il ministro è strumento. Ciò non toglie che, se possibile, è naturale cercare di confessarsi con un sacerdote degno e/o capace di introspezione e quindi di dare consigli appropriati.
Dossier: Il Sacramento della Penitenza
IL TIMONE N. 97 – ANNO XII – Novembre 2010 – pag. 46
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