1) Il Getsemani
«Allora Gesù andò con loro in un podere, detto Getsemani» (Mt 26-36). «Dette queste cose, Gesù uscì con i suoi discepoli al di là del torrente Cèdron, dove c’era un orto, nel quale entrò lui e i suoi discepoli» (Gv 18,1).
È l’inizio della Passione. Gesù si avvia verso il luogo in cui sa che sarà tradito da Giuda. L’«orto» di cui parla Giovanni può essere inteso meglio come «giardino», uliveto recintato da un muro di pietre, luogo privato, forse di un giudeo fedele a Gesù e agli Apostoli.
Secondo i Vangeli, il Getsemani si trovava oltre il torrente Cedron, alle pendici del Monte degli Ulivi, appena fuori Gerusalemme.
La prima conferma storica indiretta della credibilità del passo è data dal fatto che era in uso presso i maestri ebrei del tempo di Gesù insegnare appunto in giardini. Verso il 250 Origene parla di una tradizione gerosolimitana antichissima che identificava esattamente sul Monte degli Ulivi il luogo del Getsemani. Alla fine del IV sec. viene eretta una chiesa bizantina (odierna Chiesa delle Nazioni cattolica) le cui fondamenta erano considerate come poggianti sulla pietra sulla quale Gesù aveva pregato e agonizzato.
Davanti all’attuale chiesa vi sono alcuni ulivi centenari, uno dei quali, secondo gli esperti, potrebbe essere ricresciuto dal ceppo di un albero abbattuto durante l’assedio di Tito (70 d.C.).
2) Gesù davanti al Sinedrio
«Ora, coloro che avevano preso Gesù, lo condussero via dal sommo sacerdote Caifa, dove si erano radunati gli scribi e gli anziani» (Mt 26,57).
Dopo il tradimento nel Getsemani, Gesù viene condotto a casa del sommo sacerdote Caifa e subisce un rapido interrogatorio su quale sia la sua identità. Si tratta di un processo che presenta alcune irregolarità, poiché per un reato capitale (e tali sono le accuse lanciate contro Gesù) non ci si poteva riunire di notte e perché normalmente le sedute processuali del Sinedrio si svolgevano in un apposito locale del Tempio (chiamato “sala delle pietre squadrate”). Ma qui, come in altri luoghi dei Vangeli, le discrepanze rispetto agli usi operano da prova della fedeltà storica del racconto: infatti gli evangelisti avrebbero potuto scrivere un racconto che rimuovesse le differenze rispetto alla prassi più consolidata, per aumentarne la credibilità. Se non lo fanno, significa che si limitano a dire come sono andate le cose. Inoltre, tutta la situazione, incluse molte pagine che precedono l’arresto notturno, delinea il quadro di un vero e proprio complotto ordito dalle autorità giudaiche contro Gesù con l’aiuto di Giuda: la cattura e il processo sommario da Caifa avvengono quindi di notte nel timore di sommosse popolari a favore del Nazareno, prima che questi venga consegnato ai romani. Il processo è comunque coerente con la prassi giudiziaria ebraica del tempo contro chi era accusato di corrompere il popolo o di falsa profezia.
3) Il processo davanti a Pilato
È interessante notare come nel racconto evangelico (in particolare Lc 23,2) i sacerdoti e gli anziani del Sinedrio presentano l’accusa nei confronti di Gesù con accenti più politici che religiosi (in apparente contrasto con le accuse di “bestemmia” mossegli la notte nel palazzo di Caifa). Ciò si spiega con il fatto che solo il governatore romano della Giudea (sulla cui figura ed esistenza abbiamo dal 1961 inoppugnabili conferme archeologiche, grazie a un’iscrizione scoperta a Cesarea Marittima) poteva condannare a morte un imputato. Di fronte a Pilato, Gesù viene accusato di sedizione e di “volersi fare re”, imputazioni gravissime perché sotto Tiberio la lesa maestà era il più terribile dei crimini e punito con grande severità.
Pilato esercitava le funzioni di giudice, assistito da due carnefici, su un selciato rialzato (lithostrotos in greco, gabbatha in aramaico) cui si giungeva tramite una scalinata: durante l’interrogatorio l’imputato veniva fatto salire su una pietra quadrata per essere visibile alla folla e per poter sentire le sue risposte. Quanto i Vangeli raccontano del processo di fronte a Pilato trova conferma, almeno nelle sue linee generali, nella storia del diritto penale romano del tempo. Infatti, il governatore romano nelle provincie poteva avviare un procedimento giudiziario solo in caso di insurrezione pubblica. Un caso come quello di Gesù implicava sul piano giuridico la presenza di delatores (accusatori), in questo caso i membri del Sinedrio, che dessero inizio al procedimento inquisitorio e processuale.
Storicamente fondato è anche l’episodio della scelta, lasciata da Pilato alla folla, di liberare Gesù o Barabba, un fanatico zelota.
Era consuetudine da parte romana concedere il cosiddetto privilegium paschale, consistente nella liberazione di un prigioniero, non ancora condannato in modo formale, in occasione della festa di Pasqua, durante la quale la città di Gerusalemme si riempiva di pellegrini e diventava anche politicamente esplosiva. Le “anomalie” del comportamento di Pilato trovano giustificazione sul piano storico se si tiene presente che il governatore romano sapeva quanto gli ebrei fossero tenaci e di difficile gestione e come una certa flessibilità fosse necessaria per non urtarli, specie nell’eccitazione delle feste più importanti.
4) La flagellazione
«Allora dunque Pilato prese Gesù e lo fece flagellare» (Gv 19,1).
Pilato, pur convinto dell’innocenza di Gesù, cede alle pressioni della folla, dei sacerdoti e degli anziani che la sobillano, e lo fa flagellare.
La testimonianza della Sindone (rigorosi calcoli statistico-matematici hanno stabilito che vi è solo una possibilità su 200 miliardi che l’Uomo della Sindone non sia Gesù di Nazareth) mostra che la flagellazione di Gesù è stata assai dura, fino a circa 120
colpi. La legge mosaica prevedeva un massimo di 40 colpi meno uno (39); ma Gesù è flagellato dai romani, e lo ius romano, che prevedeva la flagellazione solo per chi non era civis romanus, non aveva limite di colpi: in pratica, il condannato veniva flagellato a discrezione dei carnefici, non di rado fino alla morte. Che fossero dei professionisti a colpirlo è dimostrato anche dal fatto che sull’uomo della Sindone risulta risparmiata solo la zona del cuore, colpendo la quale si sarebbe provocata la morte. Inoltre, dal Vangelo di Giovanni si desume che la durezza della flagellazione inflitta a Gesù è voluta da Pilato in quanto egli spera ancora di poterlo liberare (Gv 19,1-16), evitando la crocifissione di un uomo che reputa innocente. È solo di fronte all’insistenza della folla che, infine, cede. Si spiegano così la debolezza di Gesù nella salita verso il Golgota e le ripetute cadute lungo la via crucis che costringono i carnefici a far portare la croce a Simone di Cirene.
5) La coronazione di spine
«E i soldati, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo, e lo vestirono con una veste purpurea, e venivano a lui e dicevano: “Salve, re dei Giudei”. E gli davano schiaffi» (Gv 19,2-3).
Non abbiamo altra testimonianza storica in cui venga descritto un supplizio simile messo in opera dai romani. Ma la cosa non ci deve stupire. Infatti, è certo sul piano storico che una volta decisa la condanna a morte, o alla flagellazione, di un reo facesse parte della pena l’ampia libertà che gli aguzzini avevano di infierire sul condannato, modificando parzialmente la forma del supplizio, variandola, inventando piccoli elementi in grado di aumentare la sofferenza o di prolungare l’agonia. Gesù viene torturato nel cortile del Pretorio, in mezzo alla soldataglia riunita ad assistere alla sua punizione; per i soldati queste erano occasioni non comuni di divertimento: il condannato, infatti, secondo il diritto del tempo, non era più visto come un uomo, ma come una res, una cosa a cui si poteva fare tutto. I soldati sapevano del motivo della condanna (il suo essersi fatto “re dei Giudei”) e lo “incoronano” a modo loro. Infine, se gli Evangelisti avessero costruito “artificialmente” e liberamente il testo non avrebbero citato il particolare della coronazione di spine, perché in grado di falsificare il racconto, non avendo precedenti storici o giuridici. Insomma, siamo di fronte a una prova indiretta della veridicità dei Vangeli, del loro valore di fedele documento storico, dove viene riportato anche ciò che potrebbe nuocere alla credibilità storica dei testi.
6) La crocifissione e la morte di Gesù
«Presero con sé dunque Gesù, ed egli portando da se stesso la croce, uscì verso il luogo detto del Cranio, che si dice in ebraico Golgota, dove lo crocifissero, e con lui altri due, uno di qua e uno di là, ma Gesù nel mezzo» (Gv 19,17-18).
La condanna alla croce era chiamata dai romani summum supplicium, era considerata peggiore di quella ad essere sbranati dalle belve o bruciati vivi, tanto era atroce la lenta agonia; l’orrore era tale che praticamente ci resta una sola descrizione della crocifissione da parte romana (Seneca, Dialogi, III, 2.2) e le più estese in assoluto sono proprio quelle evangeliche. Importato come supplizio dai cartaginesi, era così angosciante la sua visione che l’iconografia cristiana inizia a rappresentare Gesù sulla croce solo dopo l’eliminazione del supplizio decisa da Costantino nel 315 d.C. Il Vangelo rispetta quanto dice la storia perché sottolinea che Gesù viene crocifisso appena fuori le mura di Gerusalemme, in un punto sopraelevato vicino a una porta della città, dove massimo era l’effetto ammonitore sui passanti, proprio secondo l’uso romano. Storicamente è vero che i romani permettevano l’uso giudaico di offrire vino aromatizzato come anestetico ai condannati (è la bevanda che però Gesù rifiuta) (Mc 15,23). È confermato dalla storia anche l’uso di chiodi per sospendere il condannato (resti di crocefisso di Givat Ha-Mitvar, Gerusalemme, 1968), e il crurifragium (le gambe dei condannati venivano spezzate prima di sera con mazze di ferro per permettere la sepoltura prima di notte, secondo le prescrizioni giudaiche che i romani rispettavano abbastanza scrupolosamente). Inoltre, la scienza medica e l’analisi sindonica e storica confermano come più che comprensibile la morte piuttosto rapida di Gesù, dopo circa tre ore di agonia, non per soffocamento, ma per arresto cardiaco o per un grave infarto: infatti Gesù muore dopo aver lanciato un forte grido (Mc 15,37), cosa impossibile nel caso di morte per soffocamento.
È interessante notare – come fa Messori in Patì sotto Ponzio Pilato? – che anche questa morte più rapida di quella dei due “ladroni” (ai quali infatti vengono spezzate le gambe) sembra diminuire la tragicità della morte di Gesù, la cui agonia dura meno di quella degli sventurati compagni. Se si fosse voluto esaltare fittiziamente il dolore provato dal Redentore non sarebbe stato difficile evitare certi particolari e passarli sotto silenzio.
LA PASSIONE DI CRISTO
"Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca. Con opressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua morte? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per l'iniquità del mio popolo fu percosso a morte. Gli si diede la sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza, né vi fu inganno nella sua bocca" (Isaia 53,7-9).
BIBLIOGRAFIA
Vittorio Messori, Patì sotto Ponzio Pilato?, SEI, 1992.
Michael Heseman, Titulus crucis, San Paolo, 2000.
Giuseppe Ricciotti, Vita di Gesù Cristo, Oscar Mondadori, varie edizioni.
Dossier: La Passione di Cristo? E' storia vera
IL TIMONE – N. 31 – ANNO VI – Marzo 2004 – pag. 36 – 38