15.12.2024

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Alle origini dell’Europa cristiana
31 Gennaio 2014

Alle origini dell’Europa cristiana


 

Un contributo importante allo sviluppo dell’Europa. L’invasione dei popoli barbari e la loro graduale evangelizzazione. Un passato per certi versi simile a oggi. Conoscerne la storia, per migliorare la nostra epoca

«Gli Unni: una gente che, barbara oltre ogni immaginazione, vive al di là della palude Meotide, ai bordi del mar Glaciale; (…) tarchiati, robusti, grossi di collo, con qualcosa che incute terrore nella loro struttura innaturale: quasi una sorta di animali bipedi». Così li presentava Ammiano Marcellino, in un lungo capitolo dei Rerum gestarum libri XXXI (le Storie), durante il IV secolo dell’era cristiana.
Autore forse non originale ma saldamente ancorato alla tradizione storico-retorica di Tacito, egli aveva saputo distinguerne la varietà nella pluralità delle genti che da tempo premevano sui confini dell’Impero, aggiungendo che: «In genere gli Alani sono alti e di bell’aspetto. I capelli tirano al biondo: lo sguardo è più marziale che feroce (…) il godimento che la gente quieta trova nel riposo, essi lo traggono dal rischio e dalla guerra». A due secoli di distanza, negli anni in cui Giustiniano, imperatore d’Oriente,stava riconquistandoal proprio dominio ciò che restava del regno visigoto in Italia, il greco Procopio – forse con una punta d’invidia, lui che era piccolo e olivastro – chiosava: «Ci furono e ci sono tuttora diverse specie di Goti, tutti bianchi di corpo, biondi i capelli, grandi e avvenenti le persone».
Dunque repellenza e ammirazione, sentimenti contrastanti e difformi suscitavano negli abitanti dell’Impero quelle stirpi esotiche, talora temute, raramente frequentate, spesso relegate all’ambito della narrazione letteraria e favolosa.
Almeno a partire dal II secolo il mondo romano aveva, in realtà, intessuto contatti e relazioni, soprattutto di natura commerciale, con il variegato mondo dei barbari (così chiamati perché parlavano male il latino e apparivano come balbuzienti), che si erano temporaneamente stanziati oltre il Reno e il Danubio, i grandi fiumi divenuti la frontiera settentrionale dell’Impero. Attirate dalle fertili terre dell’Europa meridionale, dal richiamo di una civiltà evoluta e ricca, le tribù di Germani si erano insediate a ridosso di questi confini come coloni o come federati, con il beneplacito dell’autorità romana. Molti di loro avevano prestato e prestavano il servizio militare nelle legioni dell’Impero. Ma queste popolazioni erano risultate incapaci di organizzarsi in un’efficace struttura politica e militare. Così, proprio alla fine del IV secolo, sotto la minaccia degli Unni, alcune tribù di Visigoti avevano valicato i confini dell’Impero in cerca di protezione, aprendo di fatto un varco ad altre popolazioni, più selvagge, pronte alla rapina e al saccheggio.

I barbari varcano il confine
Dal V secolo, dunque, i rapporti tra mondo romano e mondo germanico mutarono. Nell’inverno del 406, una stagione particolarmente fredda, il fiume Reno gelò, consentendo così a diverse popolazioni barbariche di varcarlo per compiere scorrerie in Gallia. Da quel momento le penetrazioni dei popoli germanici e asiatici nei territori d’Occidente si susseguirono senza soste; nel 410 anche Roma venne sottoposta al saccheggio dai Visigoti di Alarico. Nonostante alcuni tentativi di resistenza, arretrando i confini dove erano meno difendibili (come in Britannia e in Germania) o combattendo le ultime grandi battaglie campali, l’Impero d’Occidente, minato da endemici fattori di debolezza, giunse alla dissoluzione formale nell’anno 476.
Nella penisola italica, successivamente alle scorrerie di Unni e Visigoti, si stanziarono gli Ostrogoti di Teodorico; in Gallia fondarono domini di differente estensione e solidità a nord i Franchi, a sud i Burgundi; alla penisola iberica si indirizzarono i Visigoti, che spinsero i Vandali verso l’Africa del nord. Molte di queste popolazioni diedero quindi vita a forme politico-istituzionali nuove, che la storiografia ha designato con la significativa espressione di regni romano-germanici.
Tali vicende e gli sconvolgimenti istituzionali che ne seguirono incisero profondamente anche sulla Chiesa, che proprio durante il IV secolo, terminato il tempo delle persecuzioni, era riuscita a raggiungere una profonda intesa con il mondo romano. Dall’editto di Milano del 313, che aveva sancito la tolleranza tra i diversi culti, era iniziato ed era maturato un profondo e solido incontro tra cristianesimo e civiltà romana. Eusebio di Cesarea, autore della prima vera storia della Chiesa, credeva di poter provare che il Regno di Dio si era ormai temporalmente realizzato nell’Impero romano e cristiano di Costantino; anche sul piano linguistico il civis romanus (il romano per eccellenza) si era poco a poco identificato con il cristiano.
Tuttavia, nonostante la ormai inarrestabile diffusione del cristianesimo, ancora assai numerosi nei territori dell’Impero restavano i pagani, gli ebrei e anche gli eretici. Le comunità cristiane vivevano e si radunavano soprattutto nelle città che erano i centri maggiormente o quasi esclusivamente coinvolti nella predicazione dei missionari. Nelle campagne non mancavano i cristiani, ma erano quelli che avevano conosciuto la nuova religione ed erano stati battezzati in città, dove si trovavano la chiesa cattedrale e il fonte battesimale. Alla popolazione cittadina si potevano più facilmente rivolgere la parola e la cura pastorale del vescovo e del clero che lo coadiuvava, mentre nella campagna non vi era una stabile organizzazione ecclesiastica. Rari erano i missionari, cosicché quando anche vi fosse un inizio di cristianizzazione della popolazione rurale, questa finiva per ritornare presto al culto dei vecchi dei e alle pratiche di superstizione (il termine paganus infatti deriva da pagus, cioè la circoscrizione rurale).

L’evangelizzazione dei barbari
I barbari, invece, continuavano a risultare estranei al mondo cristiano e finché restarono al di fuori dei confini dell’Impero il problema della loro evangelizzazione non si pose. Alcuni autori giunsero a classificarli in una posizione intermedia tra gli uomini e le bestie, considerandoli inferiori agli uomini e quasi sullo stesso piano degli animali.
Ma proprio a partire dal V secolo le incursioni e i progressivi stanziamenti di questi popoli nelle regioni dell’Occidente europeo posero problemi nuovi e ineludibili. Diverse furono le reazioni del mondo cristiano: una grande personalità come Girolamo, proprio perché non vedeva altra possibilità di svolgimento della vita sociale umana se non entro lo schema imperiale romano, si convinse che la fine del mondo fosse imminente e scrisse a proposito del sacco di Roma del 410: «In una sola città è morto tutto un mondo». Echi simili si ritrovano nel De civitate Dei di Agostino. L’iniziale ripulsa dei romani cristiani nei confronti dei barbari, tuttavia, gradualmente cambiò e si orientò verso una spinta conciliatrice, tesa alla loro evangelizzazione. Qualche apologeta non esitò a lodare la Provvidenza, che aveva offerto un’occasione per l’evangelizzazione di masse considerevoli di persone. Salviano di Marsiglia, intorno al 450, rovesciò addirittura gli schemi consueti, lodando le virtù morali delle nuove popolazioni rispetto alle perversioni del mondo romano: per lui la fine della civiltà romana non era certamente la fine del mondo.
Questo atteggiamento diverrà assai diffuso qualche decennio più tardi. Attori di questa trasformazione furono soprattutto i vescovi e il mondo monastico. Proprio dove viveva Salviano, nella Gallia, grande regione romana e cristiana, più di altre percorsa dai popoli barbarici, avvenne l’incontro tra i Germani pagani e il cristianesimo cattolico grazie all’opera di autorevoli figure di vescovi: Remigio, Avito, Cesario. La predicazione evangelizzatrice si rivolgeva innanzitutto alle famiglie reali, nella speranza di facilitare la conversione dell’intero popolo: così avvenne soprattutto presso i franchi, e quindi presso i visigoti e i longobardi.
L’opera di predicazione vide in prima linea anche i monaci missionari. Non solo i grandi come Bonifacio, Willibrord nelle terre della Sassonia, Colombano nelle terre dei Franchi e dei Longobardi; innumerevoli furono coloro che, rimasti nell’anonimato, si erano spesi nello sforzo quotidiano di rendere il cristianesimo accessibile e compatibile a questi uomini neoconvertiti per forza o per obbedienza al loro re.
Nella compilazione (l’unica rimasta) del missionario Pirmino presso i Germani, emergono i temi fondamentali della sua predicazione e, di riflesso, alcune modalità di presentazione del cristianesimo alle popolazioni germaniche. I contenuti della fede erano necessariamente ridotti al minimo essenziale; si dedicava attenzione soprattutto ai precetti morali, nella speranza di eliminare alcuni, radicati vizi. Almeno agli inizi, la religione cristiana praticata da queste genti appariva come una patina superficiale, appena in grado di coprire un mondo sostanzialmente pagano. Le resistenze maggiori all’azione missionaria venivano dal mondo contadino, che probabilmente sentiva il cristianesimo come angusto, come meno rispondente alle proprie esigenze di vita spirituale; mentre avvertiva la necessità di un divino più familiare e pronto a intervenire nei bisogni particolari della vita. Il pantheon pagano era ricco di divinità grandi e piccole: l’albero, la fonte, il fiume. La condanna e l’eliminazione graduale di questi culti portò a un turbamento a cui si cercò di ovviare con l’incremento della devozione agli angeli e ai santi. Dove sorgevano templi e tempietti pagani, soprattutto nelle campagne, si costruirono oratori e cappelle cristiane; agli stessi riti pagani si cercò di sostituire riti con contenuto cristiano (le processioni delle Rogazioni, la benedizione delle messi). Una parte dell’antico paganesimo romano, germanico e persino celtico venne così in qualche modo cristianizzata ed entrò a far parte del mondo religioso cristiano, non certo modificando i contenuti del dogma ma piuttosto influendo sulle espressioni e sui convincimenti della pietà popolare.

Un lento processo di trasformazione
La conversione dei popoli barbari, perciò, non può essere letta come un’espansione trionfale del cristianesimo; fu invece un travagliato e tormentato processo di trasformazione di mentalità, di sentimenti, di abitudini e tradizioni durato secoli con oscillazioni, resistenze e contrasti accaniti.
Proprio attraverso questo processo tormentato e fruttuoso, nel crogiolo costituito dall’incontro tra la civiltà romana e la fede cristiana da un lato e il mondo dei barbari dall’altro, si preparava però uno dei tratti fondamentali, specifici e più fruttuosi della civiltà medievale. Non è un caso che la memoria scritta di queste antiche popolazioni germaniche verrà narrata da uomini di Chiesa (come Paolo Diacono per i Longobardi, Beda per gli Angli, Gregorio di Tours per i Franchi), storici non tutti appartenenti alle stirpi germaniche, ma tutti cresciuti nei valori della civiltà classica e, soprattutto, esponenti di quel mondo cristiano che aveva avuto il coraggio e la pazienza di incontrare quei nuovi popoli, ormai parte essenziale dell’Occidente europeo.

Per saperne di più…
Gregorio Penco, La Chiesa nell’Europa medievale, Portalupi Editore, 2003; utile per un quadro generale anche Claudio Azzara, Le invasioni barbariche, il Mulino, 1999.

 

 

 

 

 

IL TIMONE N. 101 – ANNO XIII – Marzo 2011 – pag. 22 – 24

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