La Rai (in quanto televisione; in quanto radio ha cominciato prima le sue trasmissioni) nel 2014 compie 60 anni, una cifra ragguardevole che viene celebrata, fra l’altro, con una mostra che si è svolta a Roma fino al 30 marzo e passerà poi dal 29 aprile al 15 giugno a Milano.
Influenza enorme sugli italiani
È difficile esagerare l’importanza che l’azienda televisiva pubblica ha svolto per la crescita, ma anche per i cambiamenti culturali (positivi e negativi) del nostro Paese negli ultimi decenni. È vero che per ognuno di noi l’agente di socializzazione più importante è la propria famiglia, seguita probabilmente dalla scuola. Ma i nuclei famigliari italiani sono circa 25 milioni, le scuole sono tantissime. I primi 6 canali televisivi invece raggiungono da soli ogni sera circa 20 milioni di persone. In queste settimane va in onda una fiction Rai sull’esperienza di scolarizzazione televisiva del maestro Alberto Manzi negli anni ’60: le sue lezioni, per esempio, si calcola che fossero seguite direttamente da un milione e mezzo di persone.
Primo periodo: guida culturale
Questi 60 anni della Rai, pur nella ovvia continuità aziendale, hanno visto epoche diverse, che gli studiosi hanno in qualche modo ormai “canonizzato”: alla prima fase, fino al 1975, è stato dato il nome un po’ ironico di “paleotelevisione”. Al di là dell’ironia, però, oggi è abbastanza unanime il riconoscimento della bontà (nella maggior parte dei casi; anche a quell’epoca c’erano alcune trasmissioni negative: per esempio, all’epoca del referendum sul divorzio anche alcuni programmi Rai hanno purtroppo contributo alla vittoria dei divorzisti) di quella Rai che era frutto di un progetto culturale e (in senso nobile) politico. Essendo un’agenzia culturale di grandissima potenza – anche perché in quegli anni aveva ben poca concorrenza − la Rai aveva assunto con piena consapevolezza il suo ruolo di guida culturale del Paese, cercando di proporre una dieta “equilibrata” di informazione e intrattenimento, sempre in un contesto di rispetto dello spettatore e di adesione ai valori di un’Italia di radice cattolica.
I non più giovanissimi ricorderanno che i programmi pomeridiani iniziavano dopo le 17 con la tv dei bambini e poi la tv dei ragazzi (si pensava che prima i bambini dovessero concentrarsi sui compiti scolastici) che la dieta televisiva variava secondo i giorni della settimana (un giorno il grande film, uno lo sceneggiato, uno il quiz, uno l’approfondimento giornalistico, ecc.). Era una tv considerata pedagogica non perché facesse lezioncine a ogni ora del giorno e della sera, ma perché aveva assunto consapevolmente il compito che (volente o nolente) la televisione ha sempre, di diffusione di stili di vita e di comportamento: per esempio, molti ricordano con nostalgia l’eleganza e la finezza degli show del sabato sera. Perché ovviamente ogni tipo di prodotto televisivo è a suo modo “pedagogico” nel bene e nel male. Lo era Canzonissima e lo è oggi – in modo molto diverso, ovviamente – il Grande fratello.
Secondo periodo: la scristianizzazione
A questa fase della tv delle origini e dei primi decenni, caratterizzata in particolare dalla figura di Ettore Bernabei, direttore generale (e vera guida) della Rai dal 1960 al 1974, seguì la fase della cosiddetta “neotelevisione”. Le caratteristiche principali di questa nuova fase sono due: la spartizione partitica dei canali principali (RaiUno alla Dc, RaiDue ai socialisti, RaiTre − che riceverà l’elegante nome di Telekabul, richiamo all’Afghanistan occupato dai sovietici − al Partito Comunista); e la concorrenza con i canali privati, in particolare quelli di Berlusconi, che nascono alla fine degli anni ’70.
Sono anni in cui la Rai rincorre scelleratamente il modello consumistico e gaudente della televisione commerciale, contribuendo ad adulterare il senso morale degli italiani: la corsa per gli ascolti fa sì che vengano via via cancellati (almeno dalle reti principali e dagli orari principali) tutti gli spazi di approfondimento, si vive di quiz, di telefilm americani, di show sempre più trasgressivi; nascono i “programmi contenitore”, si mescolano i generi (nasce il cosiddetto “infotainment”, “informazione spettacolo”), si combatte una battaglia a suon di miliardi per assicurarsi le star più importanti (Mike Bongiorno, Pippo Baudo, Raffaella Carrà e più recentemente Paolo Bonolis e Flavio Insinna), mentre si fa di tutto per portare pubblico ai propri tg che devono servire a preparare le campagne elettorali dei politici di riferimento. Sono soprattutto i decenni degli anni ’80 e ’90, che portano a grandi spese e a un indebitamento forte del gruppo Rai come di quello Fininvest.
Terzo periodo: qualche miglioramento
La terza fase è quella che stiamo vivendo oggi, della moltiplicazione dei canali, della presenza di un’offerta pay e anche del tentativo della Rai di recuperare credibilità e un maggior equilibrio nei bilanci.
Proprio perché le forme dell’intrattenimento sono oramai esplose e i canali sono tantissimi, la Rai comprende (o forse sta ora comprendendo, almeno in alcuni suoi dirigenti e operatori) che l’unica strada per differenziarsi è quella di puntare su qualità e autorevolezza. Certo, è una Rai che ha sempre un legame fortissimo con la politica, e spesso – per motivi storici di “occupazione” del potere culturale da parte dell’area della sinistra laicista – molto contigua a questa componente del panorama politico-culturale italiano che (più di altre componenti) vuole scristianizzare sempre di più l’Italia. La Dc degli anni ’60-’80 si era molto preoccupata di “presidiare” il canale principale di comunicazione con i cittadini, quindi la Rai, ma avendo a cuore soprattutto la gestione e il controllo dei vertici, e dedicando purtroppo molte meno energie a far crescere un’elaborazione culturale dal basso, che potesse nutrire università, editoria, riviste culturali, cinema, ecc. Come è noto, questa è invece esattamente la strategia seguita dalla sinistra gramsciana, che in pochi decenni si trovava in Italia a essere sostanzialmente egemone dal punto di vista culturale. I risultati di questa gravissima miopia della Dc e di questa azione programmata del Pci e dei suoi alleati si sentono ancora oggi, nella televisione come in tanti altri prodotti culturali. Ma nonostante tutto questo processo di scardinamento antropologico condotto anche dalla Rai, se guardiamo con un po’ di prospettiva gli ultimi decenni della tv, ci sembra di poter dire che recentemente alcuni passi avanti sono stati fatti dalla televisione di Stato.
Per esempio, nel campo della fiction, che è il genere più seguito dal pubblico e uno dei più importanti per forgiare valori e proporre stili di vita, nella attuale stagione 2013-2014 sono diversi i prodotti molto positivi che la Rai ha proposto: dal valore civile della fiction su Olivetti, a una riproposizione seria e completa (con una riflessione sul valore del matrimonio e della famiglia, e sul carattere illusorio dell’adulterio) del capolavoro di Tolstoj Anna Karenina, a fiction sociali come L’oro di Scampia, all’interessante (sebbene non esente da alcuni limiti espressivi) riflessione di Pupi Avati in Un matrimonio, fino a una serie sempreverde e di grandissimo successo come Don Matteo.
Purtroppo altrettanto non si può dire, per questa stagione (e molto poco si può dire per le stagioni precedenti), né per Mediaset né per Sky.
Certo, a volte vengono usati pulpiti come quello di Sanremo per discutibili e parzialissime “battaglie” sociali, come la propaganda per i “matrimoni” gay, e c’è anche nella Rai un “ventre molle” della programmazione, specialmente nella fascia pomeridiana, dove i contenuti volgari, superficiali e discutibili sono molti. Ciò non toglie che la presenza di una televisione pubblica (e si potrebbero valutare forme di finanziamento alternative al canone, come avviene in alcuni Stati) sia da prediligere a un sistema televisivo dove ci siano solo soggetti privati: lo dico conoscendo lo scadimento ancora maggiore del panorama televisivo che avviene nei diversi Paesi dove i canali televisivi sono solo in mano ai privati, e dove i network più seguiti sono spesso in mano a lobby finanziarie internazionali.
Per saperne di più…
Ettore Bernabei, L’Italia del “miracolo” e del futuro, Cantagalli, 2012.
Gianfranco Bettetini – Paolo Braga – Armando Fumagalli (a cura di), Le logiche della televisione, Angeli, 2004 (in particolare il capitolo 1).
IL TIMONE – Aprile 2014 (pag. 26-27)
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