In Italia è più semplice abbandonare la moglie (o il marito) che lasciare a casa un dipendente. Incredibile paradosso di una legislazione che ha sacralizzato il rapporto di lavoro e che ha desacralizzato il matrimonio. Abolendo l’indissolubilità fra gli sposi, e “inventandola” in fabbrica
È più facile divorziare che licenziare un proprio dipendente. Strano ma vero. Ed è sorprendente che nessuno, nemmeno fra i cattolici, si sia accorto di questo paradosso, proprio mentre in Italia infuria il dibattito intorno all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. La legge in vigore parla chiaro: oggi come oggi, se l’imprenditore Mario Rossi ha più di quindici dipendenti, e decide di licenziarne uno, sarà costretto dal giudice a riassumerlo in mancanza di una giusta causa. Ma se quello stesso imprenditore Mario Rossi è sposato e decide di andarsene da casa abbandonando sua moglie, nessun giudice italiano potrà mai obbligarlo a tornare sui suoi passi e a riprendersi la donna che ha sposato.
Si tratta di un fatto clamoroso: l’articolo 18 trasforma il rapporto di lavoro – che è un contratto di diritto civile, che non ha implicazioni affettive, che non comporta l’unione dei corpi e delle anime, che non genera figli – in un vincolo più forte del matrimonio. Impossibile non notare l’enormità di questa situazione, e non offrire una riflessione che si smarchi dai luoghi comuni e dalla solita sudditanza culturale che affligge tanta parte del mondo cattolico.
Articolo 18, le ragioni di una tutela
Si chiama “obbligo di reintegro”, ed è lo spauracchio di ogni imprenditore: consiste nella sanzione inflitta dal giudice, che impone la riassunzione del dipendente che sia stato licenziato senza giusta causa. Anche se il datore di lavoro non vuole più vederlo, non lo vorrebbe nella sua azienda, non si fida più di lui, non lo stima, non “prova più niente per lui”, pensa che “è cambiato, una volta era diverso”; anche se il datore di lavoro nel frattempo ha conosciuto un altro dipendente bravissimo, ha “perso la testa” per le sue doti professionali; anche se tutte queste condizioni si verificassero contemporaneamente, il nostro imprenditore non potrebbe in alcun modo mandare a casa il vecchio dipendente, magari per rimpiazzarlo con quello nuovo, a meno che non abbia una giusta causa di licenziamento per farlo. Insomma: la fine del rapporto fiduciario non permette al datore di lavoro di mettere alla porta il dipendente. Il quale potrà, se lo preferisce, optare per un risarcimento calcolato in un certo numero di mensilità, rinunciando al reintegro in azienda. Ma ciò non toglie che, in termini di stretto diritto, le cose stanno così: fra un datore e un lavoratore ai ferri corti, che hanno magari litigato, il giudice ha non solo il diritto ma il dovere (se viene interpellato) di mettere il dito; e ha un potere che non si limita a infliggere un risarcimento, ma che comporta un obbligo comportamentale, che “piega” letteralmente la volontà e l’autonomia del datore di lavoro.
Mondo del lavoro e parti deboli
Ovviamente, le ragioni storiche che hanno suggerito al legislatore di introdurre nello Statuto dei lavoratori l’obbligo di reintegro non sono peregrine, ma hanno una loro logica. La legge 300 fu approvata nel 1970, ed ebbe tra i suoi maggiori artefici il giuslavorista (di area socialista) Gino Giugni. A quel tempo esistevano ancora le grandi fabbriche, il proletariato e i “capitalisti”; era ancora alta la conflittualità nelle relazioni del lavoro, fatta di scioperi e di sindacati molto combattivi, e di direttori del personale vecchio stampo. In quello scenario, allo Stato pareva giusto intervenire con una legislazione che tutelasse la cosiddetta parte debole nel contratto di lavoro, inserendo un deterrente potentissimo contro il licenziamento facile o arbitrario. E l’obbligo di reintegro fu considerato la soluzione migliore, che avrebbe indotto l’azienda a pensarci due volte prima di lasciare a casa un operaio senza un grave motivo.
Come si vede, non si tratta di una questione banale. Anche perché il rapporto di lavoro di cui stiamo parlando si inserisce in un mondo fortemente secolarizzato, che da decenni ha voltato le spalle alla dottrina sociale della Chiesa e alla visione cristiana della realtà. Ciò vale tanto per l’operaio che per l’imprenditore, salvo lodevoli eccezioni. La conseguenza è l’indebolimento del senso del dovere morale e degli obblighi dettati alla coscienza rettamente formata: da una parte, l’impegno a pagare la celebre “giusta mercede” di cui parla San Giacomo; dall’altra, l’impegno a lavorare sodo e a sentirsi parte stessa dell’azienda. Affievoliti questi imperativi etici, rimane solo il rapporto di forza. Il diritto e il contratto diventano le uniche armi nelle mani delle parti, che vengono difese e consigliate dalle rispettive rappresentanze sindacali.
L’obbligo di reintegro è giusto o sbagliato? La questione è opinabile, e si possono avere sull’argomento posizioni legittimamente diverse. Certo, si tratta di uno strumento, e come tale anche sacrificabile: non lo si trova né sulle tavole della legge consegnate a Mosè sul Sinai, né fra i dogmi della Chiesa cattolica, né tra i precetti della legge naturale. Insomma, parliamone.
E le parti deboli nel matrimonio?
I difensori inamovibili dell’articolo 18 – piuttosto numerosi anche fra i cattolici – dicono: il lavoratore è parte debole, dobbiamo tutelarlo. L’osservazione è fondata. Almeno in linea teorica, poiché oggi non tutti gli imprenditori sono ugualmente “parte forte”. Ma sia pure. Ora, ci chiediamo: e le “parti deboli” all’interno del matrimonio? Per loro non è pensabile alcun tipo di “obbligo di reintegro”?
Un marito se ne va e lascia la moglie contro la sua volontà, senza alcun preavviso e senza che sussista alcuna “giusta causa”. Il giudice potrà obbligare l’uomo a pagare un assegno mensile anche salato. Ma non potrà mai impedire con la forza la distruzione del matrimonio, e la separazione sarà la premessa di un automatico divorzio. In questo caso, nessun sindacato reclamerà “l’obbligo di reintegro” per la povera moglie abbandonata.
Oppure: un marito viene lasciato dalla moglie che ha trovato un uomo con cui rimpiazzarlo. Ci sono anche dei figli in tenera età ma, come si dice oggi, al cuor non si comanda: l’amore deve essere inseguito a qualunque costo, perché altrimenti quella povera donna sarebbe costretta a “rinunciare” ai suoi sentimenti “solo” per tenere in piedi un matrimonio e per accudire dei bambini. Anche in questo caso, le “parti deboli” – il marito sedotto e abbandonato e i bambini che cercano mamma – non possono farci nulla. Potranno, questo sì, pretendere dei soldi, un risarcimento per il danno subito (ammesso che il giudice decida in questi termini, e non punisca viceversa proprio la parte “lesa”, imponendo a lei l’obbligo di mantenimento). Ma nessun giudice potrà obbligare anche un solo padre o una sola madre a “reintegrare” il coniuge per rispetto di quella parte debolissima (altro che il lavoratore!) che sono i figli.
Marxismo e liberalismo: il matrimonio perfetto
Incredibile paradosso di una legislazione che ha sacralizzato il rapporto di lavoro e che ha desacralizzato il matrimonio, uccidendolo nella sua intrinseca indissolubilità. In questa operazione, marxismo e liberalismo sono stati buoni alleati, entrambi riducendo per strade diverse la persona a “homo faber”, ed entrambe attaccando la famiglia come corpo intermedio fondamentale, per rimpiazzarlo con lo Stato oppure con il mercato.
Non ci sfugge che alla legge Fortuna sul divorzio del 1970 si accompagna una mentalità diffusa aberrante, che ormai considera il matrimonio una burletta. Il senso comune considera un posto di lavoro ben più importante della indissolubilità del vincolo fra due sposi. Ma, preso atto di questa situazione concreta, resta da decidere quale sia il dovere della Chiesa e dei cattolici: accodarsi alla marea montante e al trionfo del nichilismo gaio, oppure reagire, rimettendo le cose nel loro giusto ordine? Difendere l’articolo 18 (un vescovo lo ha pubblicamente fatto nelle scorse settimane) e tacere sull’ingiustizia grave della legge divorzista che ha distrutto il matrimonio naturale? Occorre uscire da questo dilemma, e farlo al più presto.
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IL TIMONE N. 113 – ANNO XIV – Maggio 2012 – pag. 12 – 13
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