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12.12.2024

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Attenti alle interpretazioni ideologiche
31 Gennaio 2014

Attenti alle interpretazioni ideologiche

Le critiche di un vescovo all’interpretazione del Vaticano II dello storico Giuseppe Alberigo e della sua scuola. E l’appello a non separare lo «spirito del Concilio» dai suoi documenti.
Alla presentazione del suo nuovo libro, il presidente della Cei cardinale Camillo Ruini ha chiesto che finalmente venga scritta una storia del Concilio Vaticano II “non ideologica”.
E subito monsignor Agostino Marchetto, segretario del Pontificio Consiglio dei Migranti, è diventato famoso per molti giornali italiani. Eppure il suo testo Il Concilio Vaticano II. Contrappunto per la sua storia è poco più che una raccolta di recensioni… Semmai esplosivo è il fatto che il vescovo abbia avuto il coraggio di criticare la più «intoccabile» storia del Vaticano II, quella compilata dall’«officina bolognese» guidata da Giuseppe Alberigo: libri che, anche solo per la loro monumentalità, condizionano pesantemente tutte le interpretazioni del Concilio.

Monsignor Marchetto: c’è chi lo esalta e chi lo svaluta; chi lo interpreta come un passo fondamentale per la Chiesa e chi all’opposto sottolinea che si è trattato solo di un «concilio pastorale», senza forza dogmatica. Lei, da storico e da uomo di Chiesa, come la pensa? Come dobbiamo interpretare davvero il Vaticano II?
«Nei vari atteggiamenti verso il Concilio troviamo l’opinione di ciascuno, il punto di vista personale se non la propria “ideologia”.
Invece dobbiamo chiederci come vedere con gli occhi della fede questo grande avvenimento ecclesiale (e non solo) del XX secolo; il generale Charles de Gaulle giungeva infatti a dire che si è trattato del maggior evento anche per la storia profana. Per noi cattolici si tratta di un Concilio ecumenico, dunque non accettiamo la prospettiva di staccarlo dagli altri concili e dalle decisioni conciliari che portano il marchio cattolico del consenso e dell’unità. Per noi i suoi testi non vanno svalutati né “filtrati”, sia pure tenendo presente il “genere letterario” di ciascun documento. E poi soltanto i testi definitivi “fanno testo”, altrimenti qualcuno li riceverà alla sua maniera, a pretesto per il proprio cammino personale o per la sua preferenza teologica o di “scuola”. Il fatto poi che il Concilio non proclami nuovi dogmi, che sia stato voluto come “pastorale”, nulla toglie alla sua importanza, per noi tesa alla promozione della fede cattolica e al rinnovamento dei costumi e della grande disciplina intrapresi dai concili che lo precedettero. Purtroppo tale non è il pensiero dell’interpretazione “bolognese”, appunto».

Già. Una corrente culturale molto ascoltata, almeno negli scorsi decenni, ci ha insegnato a dividere il Concilio in due fasi: la prima, quella aperta e «progressista», sotto il «buon» Giovanni XXIII e il Paolo VI degli inizi; la seconda, che si prolunga anche dopo la fine delle assise vaticane, sarebbe invece un «tradimento» delle promesse e aspettative precedenti. Lei critica radicalmente tale interpretazione: su che basi di fatto?

«Ho dimostrato con ricerca approfondita del pensiero di Giovanni XXIII e di Paolo VI che i due Papi avevano, rispetto al Concilio, la stessa intenzione. Papa Giovanni distingueva la sostanza – l’intera, precisa, immutabile dottrina – e la sua presentazione. L’aggiornamento (parola chiave per capire il Concilio), dunque, era inteso non come spaccatura col passato, o contrapposizione di momenti storici, ma quale crescita, perfezionamento del bene sempre in atto nella Chiesa, pur con le sue rughe. Paolo VI fu fedele interprete del pensiero del predecessore e non suo affossatore, come ha tendenza a credere la corrente che va per la maggiore nell’interpretazione conciliare. In effetti Paolo VI, pur di formazione e carattere diversi dal Papa Buono, mantenne la stella polare dello “sviluppo nella continuità”. Non sarebbe nel vero – affermò papa Montini – chi pensasse che il Vaticano II rappresenti un distacco, una rottura o una liberazione dall’insegnamento della Chiesa, o autorizzi o promuova un conformismo alla mentalità del nostro tempo».

È in ogni caso curioso che sia chi nega persino la validità del Concilio, sia chi ne enfatizza l’importanza quasi fosse una «rifondazione» della Chiesa, in realtà interpreti il Vaticano II come una frattura – positiva o negativa, a seconda delle preferenze – rispetto al passato. Come mai?
«Gli estremisti, sia nel gruppo degli “innovatori” (diciamo così) che dei “conservatori”, non hanno accettato il consenso conciliare stabilito sia attorno al rinnovamento, sia sulla tradizione. Penso a coloro che si rifanno al vescovo scismatico mons. Marcel Lefebvre e alla “officina di Bologna”, per esempio, che si ritrovano nel comune terreno dell’interpretazione del Concilio secondo le loro preferenze: nel senso, cioè, della nascita quasi di una nuova Chiesa infedele alla tradizione per gli uni, o del rinnovamento che si vuol radicale per gli altri. Entrambi insomma vanno contro la natura di un Concilio ecumenico, quale fu il Vaticano II».

Lo «spirito» del Concilio: per quanto tempo ne abbiamo sentito parlare… Esiste davvero? E in che cosa consiste?
«In genere si parla dello spirito quando si considera ciò che lo caratterizzò oltre i documenti, però senza svalutarli. Ma c’è anche una tendenza a considerare lo “spirito” del Concilio secondo il proprio intendere e quanto il Concilio avrebbe dovuto essere, e non fu, piuttosto che i suoi documenti finali che – come detto – fanno testo. Di essi c’è svalutazione voluta, interpretazione parziale, filtro “ideologico”.
Fin dall’inizio avvertii questo pericolo e sottolineai che “spirito” e “materia” (cioè i documenti finali) non solo vanno insieme, ma lo spirito lo è di questi documenti ed essi sono animati da quello spirito. L’esempio dell’anima e del corpo nell’uomo, unità sostanziale, potrebbe essere una buona immagine esemplificativa».

Il post-Concilio, con tutti i fenomeni di contestazione e dissenso, non sembra essere stato un periodo felice per la Chiesa. Paolo VI ha parlato persino di «fumo di Satana» penetrato tra le navate. Forse era meglio non celebrarlo nemmeno, il Vaticano II?
«Ricordo anzitutto quanto spesso ripetuto anche dal Magistero: quanto si è verificato dopo il Concilio non è da attribuire ad esso. Ma certo va anche fatta menzione del rischio che si ebbe per una falsa percezione della discussione conciliare. Dietro il predominio dei teologi si coglieva infatti qualcosa d’altro: l’idea di una sovranità ecclesiale in cui il popolo stesso stabilisce quel che vuole intendere con il termine Chiesa, che anzi appariva ormai chiaramente definita come “popolo di Dio”. Si annunciava così l’idea di una “Chiesa dal basso”, di una “Chiesa del popolo”, che poi divenne il fine stesso delle riforme. Il Concilio può essere stato interpretato falsamente, e da ciò le difficoltà post-conciliari. Eppure, anche con tali rischi, come ci troveremmo se il Concilio non ci fosse stato? Saremmo immensamente più poveri».

A 40 anni dalla conclusione, qualcuno descrive il Vaticano II come un Concilio ancora «incompiuto». Qualcun altro (anche tra i cardinali) invoca un Vaticano III. Lei con chi sta?
«Perché incompiuto? Anche qui penso di intravedere le insoddisfazioni degli uni e degli altri, perché i propri desideri, anche ecclesiali, non sono stati esauditi. Dobbiamo metterci in un atteggiamento di fede, perché Dio va oltre i nostri desideri, specialmente se sono umani, troppo umani. Ma sì, potrei accettare il senso di “incompiuto” se significasse che ognuno lo deve compiere nella cosiddetta “ricezione” del Concilio: nella sua interezza, non solo in quello che ci piace. Compiamo dunque il Concilio con un’adesione di mente e cuore, smettiamo di criticarlo e invece applichiamolo! C’è ancora, credo, tanto da pensare, agire e rinnovare nella fedeltà.
Anche per questo, personalmente, reputo che dovremmo prima “assorbire” il Vaticano II. E il cammino a questo riguardo mi sembra ancora abbastanza lungo».

Dossier: Quarant’anni dopo. Il Concilio Ecumenico Vaticano II
IL TIMONE – N. 48 – ANNO VII – Dicembre 2005 – pag. 42 – 43
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