Una descrizione del processo di separazione delle due autorità che nel Medioevo avevano guidato la republica christiana, dal machiavellismo alle tragiche iniquità del XX secolo.
La differenza tra distinzione e separazione ci offre una possibile chiave per comprendere l’esatto rapporto tra l’autorità spirituale e quella temporale nella prospettiva cattolica.
Occorre ricordare che la legge dell’essere è l’unità e che Dio è l’uno assoluto e perfetto, prima causa e primo principio di tutto ciò che esiste, «origine di tutte le cose e loro compimento finale», come scrive san Bonaventura nel Breviloquium (parte I, cap. V, n. 8). Alla assoluta unità di Dio, unità metafisica e non numerica, come spiega san Tommaso, si oppone la varietà e la molteplicità del creato. Ogni creatura è una e identica a sé stessa, perché ha una propria essenza e una propria natura che la specifica, ma è molteplice perché è distinta dalle altre creature. La distinzione caratterizza non solo il rapporto dell’universo con Dio, ma anche quello delle cose create tra di loro, perché una molteplicità di creature rappresenta con maggior ricchezza la perfezione divina che non una sola creatura limitata, come spiega san Tommaso (Contra Gentiles, II, 45).
Nella visione cristiana la società temporale deve essere, a immagine dell’universo, gerarchica e sacrale, ordinata cioè e sottomessa all’unico principio che tutto trascende. In questa prospettiva si può intendere il rapporto tra le due autorità sovrane di cui Gesù Cristo dispose la coesistenza sulla terra stabilendo di dare «a Cesare quello che appartiene a Cesare e a Dio quello che appartiene a Dio» (Mt 22,21): il potere spirituale, proprio della Chiesa, e il potere temporale, incarnato nella persona di Cesare.
Chiesa e Stato, ordine spirituale e ordine temporale, sono realtà distinte ma non separate. La separazione presuppone un rapporto di autonomia e parità e conduce inevitabilmente al conflitto. La distinzione implica un fine comune e rende possibile un intimo rapporto di collaborazione tra i due poteri. Secondo il Magistero della Chiesa vi è stata un’epoca in cui, pur con le sue imperfezioni storiche, «la filosofia del Vangelo governava gli Stati» ispirandosi a questo rapporto di mutua collaborazione (Leone XIII, Enciclica Immortale Dei del 1° novembre 1885). Nel Medioevo cristiano, la Cristianità fu guidata infatti da due governi: l’auctoritas sacrata dei Pontefici, o Ecclesia, e la regalis potestas dei sovrani, o Imperium secondo la celebre formula dei «duo luminaria», enunciata da papa Gelasio (492-496). Il Papa e l’Imperatore incarnavano i due supremi poteri, l’uno religioso, l’altro temporale della Cristianità, esercitando una plena potestas derivante sia all’uno che all’altro, direttamente o indirettamente, da Dio. Questa distinzione tra i due poteri, al di là dei conflitti che conobbe la Cristianità medioevale, come la lotta per le investiture, non significava duplicità dei fini ultimi, poiché Dio era considerato l’unico fine e la causa suprema di ogni realtà, sia visibile che invisibile.
La natura di questa relazione si esprimeva nella cerimonia della consacrazione dell’Imperatore e dei Re. I sovrani consideravano la loro dignità quasi come un incarico ecclesiastico che imponeva loro di proteggere la Chiesa e difendere la Fede. Il canto del Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat! con cui il popolo romano saluta l’incoronazione di Carlo Magno e le parole che Giovanna d’Arco rivolge a Carlo VII, quando gli dice «voi sarete il luogotenente del Re dei Cieli, che è re di Francia», riflettono questa stessa visione.
La cerimonia d’incoronazione esprime inoltre il principio della sottomissione del sovrano alla legge divina e naturale. All’atto del giuramento, il Re, rispondendo alle domande del vescovo celebrante, s’impegna a difendere e a sostenere la fede cattolica e ad agire secondo giustizia e in conformità alla legge divina e naturale. In questa cerimonia, sottolineano i fratelli Carlyle, è implicito un patto stipulato innanzitutto con la Chiesa, e in secondo luogo col popolo, che ha diritto ad essere governato in base ai princìpi della legge naturale (vol. II, pp. 48-49).
Henri de Bracton (c. 1216-1268), nel suo De legibus et consuetudinibus Angliae, spiega che tutti gli uomini sono sottomessi ai Re, mentre il Re non è sottomesso che a Dio e, aggiunge subito, alla legge, perché è la legge che fa il Re: «Ipse autem rex non debet esse sub homine, sed sub Deo et sub lege, quia lex facit regem». Non si tratta di una frase isolata ma dell’enunciazione sintetica di un principio che impregna l’intera struttura costituzionale della società medioevale e sopravvive fino alla Rivoluzione francese.
Nella monarchia di Ancien Régime, come nel Medioevo, esiste un ordine obiettivo di valori al quale il Re deve sottomettersi. Il sovrano resta sub lege; la sua sovranità è limitata da questa stessa legge alla quale egli è legato e che – sia come diritto divino che come diritto consuetudinario – gli preesiste. La limitazione della sovranità non lo indebolisce, poiché essa gl’impedisce di compiere atti che potrebbero distruggere la sua stessa sovranità. In questo senso, come avverte François Bluche, «le leggi del regno proteggono il Re da lui stesso» (L’Ancien Régime, Ed. du Fallois, Parigi, 1996, p. 28). La sovranità del Re è subordinata a princìpi e a leggi sovrane che costituiscono il fondamento della sua stessa sovranità.
A questa concezione cristiana dei rapporti tra ordine spirituale e ordine temporale si oppone il paradigma rivoluzionario della separazione dell’ordine temporale da quello spirituale, ossia dell’emancipazione della società dalle leggi divine e naturali: un processo rivoluzionario – magistralmente descritto nell’opera di Plinio Correa de Oliveira, Rivoluzione e Contro.Rivoluzione (Cristianità, Piacenza 1977) – che conduce alla decomposizione della società, privata di quell’unità che le conferisce vita e significato. L’unità è sinonimo di vita, la morte, come osserva Ernest Hello (pp. 185 e sgg.), è sotto tutte le sue forme separazione. Il processo di secolarizzazione della civiltà cristiana è innanzitutto un processo di separazione di ogni aspetto della realtà dal suo centro, in nome di una prospettiva ugualitaria che nega la struttura profondamente unitaria e gerarchica dell’universo.
Esiste un parallelismo e una indubbia confluenza tra la separazione tra Stato e Chiesa teorizzata dall’umanesimo e quella attuata di fatto dal protestantesimo. L’umanesimo emancipa, infatti, la sfera politica dalla sua fonte metafisica e morale, di cui la Chiesa cattolica era la depositaria e la custode; il protestantesimo, negando radicalmente l’autorità stessa della Chiesa, separa definitivamente da questa il potere politico. L’autonomia della politica dalla morale, inaugurata dall’umanesimo, prepara in numerosi Stati europei la definitiva separazione del potere secolare dall’autorità della Chiesa cattolica. Ma, soprattutto, l’interpretazione luterana della massima evangelica «date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio», fondata sulla scissione tra fede e ragione e tra grazia e natura, porta ad una separazione tra i due ordini, quello religioso e quello civile, analoga alla separazione tra morale e politica introdotta da Machiavelli. La Rivoluzione francese porterà a compimento questo processo di scristianizzazione attribuendo alla volontà del popolo-nazione la fonte suprema di ogni legalità. Il totalitarismo del secolo XX sarà l’espressione coerente, ma non l’ultima, di un itinerario destinato a sfociare nella anarchia del tempo presente.
La separazione dei due ordini, fatta propria anche dal cattolicesimo liberale, fu condannata da Gregorio XVI nell’enciclica Mirari vos del 15 agosto 1832, da Pio IX nel Sillabo e nella Quanta cura dell’8 dicembre 1858, da Leone XIII nella enciclica Immortale Dei del 1 novembre 1885 ed è stata più volte ribadita dai Papi del Novecento. «Dalla forma data alla società, consona o no alle leggi divine, dipende e si insinua anche il bene o il male nelle anime» afferma Pio XII nel Radiomessaggio del 1° giugno 1941, ricordando come la Chiesa ha il diritto di esercitare un potere d’intervento in quelle essenziali condizioni temporali che, indirettamente, le permettono di assicurare agli uomini il conseguimento della salvezza eterna. Appare infatti chiaro che, anche in una società secolarizzata, numerose questioni – come quelle del matrimonio, della vita, dell’educazione, della proprietà, del lavoro, della pace e del diritto internazionale – possono diventare condizioni decisive nel favorire o nell’ostacolare la salvezza degli uomini; esse quindi formano per ciò stesso oggetto d’intervento della Chiesa e quindi del Papa. «Si deve tenere apertamente e formalmente – insegna ancora Pio XII – che il potere della Chiesa in nessuna maniera è limitato alle cose strettamente religiose, ma che tutta la materia della legge naturale, la sua esposizione, interpretazione e applicazione, qualora si consideri il loro aspetto morale, è di competenza della Chiesa. Infatti l’osservanza della legge naturale, per disposizione divina, riguarda la via per la quale l’uomo deve tendere al fine soprannaturale; orbene, su questa via è la Chiesa guida e custode degli uomini».
Un chiaro esempio di questo Magistero pontificio è l’enciclica Evangelium Vitae di Giovanni Paolo II del 25 marzo 1995. In essa il Papa conferma che «l’uccisione diretta e volontaria di un essere umano innocente è sempre gravemente immorale» (n. 57) e ribadisce la scomunica latae sententiae, cioè automatica, per tutti coloro che commettono, anche come complici, il delitto di aborto (n. 62), compresi i legislatori (n. 59). Giovanni Paolo II rivendica dunque il diritto della Chiesa a intervenire nelle materie temporali che attengono la morale e ribadisce con ciò il primato della morale sulla politica, dell’ordine spirituale su quello civile, pur in quella distinzione tra le due sfere che è alla base di una corretta nozione di “laicità”.
Gli esiti della separazione tra la politica e la morale, tra la ragione e la fede, tra la natura e la grazia, tra l’ordine temporale e quello spirituale, sono stati storicamente catastrofici. La lotta per la restaurazione di una visione ordinata dell’universo e della società dovrebbe costituire, a mio vedere, il fine precipuo del laicato cattolico nel XXI secolo.
LUCI DEL MEDIOEVO
«Ma perché quest’odio per il Medioevo? Proprio la sostituzione linguistica di un termine apparentemente neutro a quello che si dovrebbe usare, cl fornisce la chiave della risposta. In realtà, ben più che di Medioevo, bisognerebbe parlare di civiltà cristiana o di Cristianità (a seconda che si voglia sottolineare maggiormente l’aspetto socio-culturale o quello politico-istituzionale)».
(Marco Tangheroni, La “leggenda nera” sul Medioevo, in Cristianità, febbraio-marzo 1978).
BIBLIOGRAFIA
Roberto de Mattei, La sovranità necessaria, Il Minotauro, 2001.
Ernest Hello, L’uomo, tr. it., Rinascimento del libro, 1928.
Robert W. – Alexander J. Carlyle, Il pensiero politico medioevale, tr. it., Laterza, 1965-1968.
Dossier: Grandezza del Medioevo Cristiano
IL TIMONE – N. 32 – ANNO VI – Aprile 2004 – pag. 39 – 41