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13.12.2024

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Baruch
31 Gennaio 2014

Baruch


 

 

Nel libro L’Inquisizione sotto inquisizione di Léo Moulin, edito dall’Associazione Culturale Icaro (Cagliari 1992) e messo a disposizione dalla rete TotusTuus, un curioso capitoletto (pp. 29-31) riguarda un certo ebreo Baruch, un rabbino tedesco che il 14 luglio 1320 comparve davanti all’Inquisizione con l’accusa di essere un regiudaizzante, cioè un battezzato cristiano che era tornato al giudaismo. L’Inquisizione, lo ricordiamo, aveva giurisdizione sui soli cristiani, non sugli appartenenti ad altre fedi come ebrei e musulmani. Ma se uno era stato battezzato e poi apostatava (lo scandalo, naturalmente, doveva essere pubblico), incorreva nel sospetto di eresia. L’apostasia – ricordiamo anche questo – era perseguita pure da ebrei e musulmani, in un tempo in cui alla religione veniva data un’importanza che a noi oggi sfugge. Proprio per questo si richiedeva che ognuno manifestasse apertamente la propria identità religiosa portando segni esterni sugli abiti. Léo Moulin, sociologo delle religioni, scrisse il suo libro per dimostrare che ogni società cerca di salvaguardare se stessa da coloro che attentano alle sue fondamenta. Compresa l’attuale, che persegue quanti cercano di minare l’ordine democratico. Fondamento della società europea fu per molti secoli il cristianesimo. Oggi sono i “diritti civili e umani”, i cui confini mutano in continuazione ma non per questo la legge rinuncia a tutelarli anche in sede penale. Gli inquisitori medievali, aggiunge Moulin, erano preti il cui interesse non era sterminare gli eretici bensì il loro recupero all’ortodossia. E quest’ultima era ben chiara e definita.
Per tornare a Baruch, il suo caso è esemplare. Gli inquisitori per prima cosa gli chiesero se l’accusa a lui rivolta corrispondeva a verità. Lui rispose che, sì, era stato battezzato ma con la forza da alcuni fanatici (denominati «Pastorelli») sotto minaccia di morte. Perciò il suo battesimo non era valido. Baruch, dunque, non era “tornato” al giudaismo per il semplice fatto di non averlo mai abbandonato. Se lo avesse fatto – sottolineava Baruch, che era, non dimentichiamolo, un rabbino – il Talmud lo avrebbe obbligato a una particolare cerimonia di regiudaizzazione. Baruch rammentò agli inquisitori che per il Talmud «il peccato di farsi battezzare è più grave che farsi uccidere». Ma il vescovo, la cui presenza all’inquisizione era obbligatoria, era di parere diverso. Il vescovo era il vero guardiano della fede nella sua diocesi e gli inquisitori potevano emettere una sentenza solo col suo consenso. Per il vescovo di Baruch, che conosceva bene i fatti, il battesimo del rabbino era valido perché non era stato ricevuto sotto costrizione assoluta. Piccola parentesi: anche il diritto odierno distingue tra costrizione assoluta e costrizione relativa. È assoluta, per esempio, quando ti afferro la mano e ti faccio firmare di forza. È relativa, sempre per esempio, quando ti punto una pistola alla testa: puoi scegliere se firmare o farti ammazzare. Naturalmente, la legge prevede che sia il giudice a stabilire quando la minaccia (che deve essere “grave” e “attuale”) sia effettivamente tale da invalidare il consenso. Ad esempio, la minaccia di un pugno in faccia è più “grave” e “attuale” nel caso di un vecchio infermo che nel caso di un giovane robusto. In ogni caso, ripetiamo, è il giudice a dover decidere. Per quanto riguarda Baruch, il giudice era il vescovo, e il vescovo non stimò la minaccia rivolta a Baruch “grave” e “attuale”. Tanto più – aggiunse – che «la necessità che lo spinse alla fede lo portò non verso il peggio ma verso il meglio ». Dunque, Baruch era tenuto ormai a considerarsi cristiano e a comportarsi di conseguenza. Ed è qui che comincia la parte interessante, nella quale si conferma quel che si è detto: gli inquisitori avevano interesse a riportare gli eretici nell’alveo cristiano, non a eliminarli. Baruch replicò agli inquisitori quanto segue: «Siccome ignoro ciò che i cristiani credono e perché lo credono, mentre al contrario conosco la mia Legge e perché i giudei credono ciò che credono, e siccome la nostra fede è avvalorata dalla Legge e dai Profeti che ho studiato quale dottore per venticinque anni, se non mi si dimostra attraverso la mia Legge e i Profeti che la fede dei cristiani è conforme ad essi, non voglio né credere né osservare il cristianesimo, e preferisco morire piuttosto che abbandonare il giudaismo, tanto più che sono una reale autorità per i giudei di queste regioni. Ma se monsignore il vescovo o qualcun altro mi prova e mi mostra con la Legge e i Profeti che ciò che credono e osservano i cristiani è conforme alla Legge ed ai Profeti, e che la setta e il rito dei giudei, oggi, non sono più utili alla salvezza, sono disposto a lasciare la setta e il rito degli ebrei, e a passare alla fede e al credo dei cristiani».
Un giudice del Terzo Reich non si sarebbe messo, a questo punto, a dimostrare la superiorità del nazismo, né uno sovietico quella del marxismo al dissidente imputato. Gli avrebbe riposto che la legge è legge e lui era tenuto ad applicarla. Ma anche un giudice odierno non si metterebbe a dimostrare perché non si devono discriminare gli omosessuali o perché non si deve cercare di ricostituire il partito fascista: la legge parla chiaro e chi la infrange va punito.
Invece, nel caso di Baruch, il vescovo fece proprio il contrario: si organizzò per dimostrare, a esclusivo beneficio dell’imputato, che il cristianesimo è la naturale evoluzione dell’antico giudaismo. Il che conferma quanto l’Inquisizione tenesse all’anima del singolo eretico. Il dibattito comportò la chiamata (e il pagamento) di un traduttore simultaneo, perché «Maestro Baruch non conosce bene la lingua volgare di questo paese». E la presenza di qualificati teologi, che per due settimane disputarono con l’imputato «sulla Trinità delle Persone e l’Unità dell’essenza divina, sui nomi propri delle Persone e la loro processione». Alla fine Baruch si dichiarò vinto e «confermò che esiste la Trinità delle Persone divine e l’Unità della natura divina. E aggiunse che credeva questo poiché era stato vinto dall’autorità della Sacra Scrittura, della Legge e dei Profeti. Confessò anche che Padre, Figlio e Spirito Santo sono i nomi propri delle Persone divine secondo le Scritture, e confessò la processione delle Persone». Ma non era finita. Baruch doveva ancora credere che Cristo era il Messia promesso dalla Legge e dai Profeti, che era Dio ma anche uomo e che la sua era vera divinità e vera umanità. La prima parte della disputa durò otto giorni. La seconda, più ardua, superò le tre settimane. E di nuovo Baruch si dichiarò vinto.
Ma non era ancora tutto. Bisognava dimostrargli «l’immortalità dei corpi umani dopo la resurrezione, e il fatto che questi corpinon avranno più bisogno di cibo né altre necessità di questa vita, che in essi la generazione e la corruzione cesseranno e che i corpi dei dannati potranno essere nel fuoco eterno e non essere consumati, quantunque debbano subire una sofferenza intollerabile». Risulta dal verbale (redatto, come da procedura, da un notaio) che nuovamente Baruch si dichiarò vinto. Baruch non era un sprovveduto, era – lo sappiamo – un rabbino che aveva studiato le Scritture ebraiche per venticinque anni. La sua non era una furbata per non pagar dazio, fingersi cioè convinto per scansare la punizione. Infatti, a quel punto pose agli inquisitori una domanda sottile: «Chiese perché gli obblighi legali dell’Antico Testamento non erano osservati dai cristiani, visto che mantenevano in tutto il resto la fede e il credo dei Profeti ». Fu necessario riprendere la disputa e dimostrargli «con la Legge e i Profeti che con la venuta di Cristo essi avrebbero dovuto cessare». Finalmente maestro Baruch gettò la spugna ed «espresse il desiderio di chiamarsi Giovanni e di diventare cristiano, ma dichiarò che voleva istruirsi ancora leggendo da solo i libri della Legge e dei Profeti». Nota il Moulin che Baruch non menzionò il Nuovo Testamento, cioè i Vangeli, gli Atti, le Lettere degli Apostoli e l’Apocalisse. E che il suo studio l’avrebbe effettuato «da solo». In seguito fu riferito al vescovo che «Giovanni» stava ricominciando a «titubare». Ma «titubare» non era vietato ai cristiani e l’ex rabbino fu lasciato in pace.
L’episodio ci dà agio di riflettere su quel che i medievali intendevano per “dibattito”: esercizio di ragione per giungere alla verità. Senza limiti di tempo e con arbitri che assegnavano i punteggi in base alla logica espressa nelle argomentazioni espresse. Oggi i “dibattiti” si svolgono in tivù: non c’è arbitro né intenzione di giungere alla verità. Della quale non importa nulla a nessuno, men che tutti al “moderatore”. I tempi televisivi sono strettissimi, quel che conta è il botta-e-risposta atto a fare audience. Insomma, un battibecco tra comari, nel quale conta solo il possesso di una lingua tagliente. Per essere chiari: un gay digiuno di studi ma avvezzo al salotto fa un sol boccone del più esperto teologo. E questo misura tutta la distanza che ci separa dai “secoli bui”.

 

 

 

IL TIMONE  N. 107 – ANNO XIII – Novembre 2011 – pag. 208 – 21

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