Di quale “povertà” parla Gesù nelle beatitudini? Paradiso e inferno sono collegati solo a indigenza e benessere? Facciamo un po’ di chiarezza
Dopo alcune considerazioni introduttive, eccoci dunque giunti al punto di partenza, cioè ai piedi di quella strana “scala della felicità” che abbiamo visto essere le Beatitudini, proclamate da Gesù nel Discorso della Montagna. Curiosi e pronti a salirne il primo gradino: quello della povertà.
Per iniziare, cominciamo con il rileggere insieme i due testi presenti rispettivamente nei Vangeli di Matteo e di Luca. «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,3); e «Beati voi poveri perché vostro è il regno di Dio» (Lc 6,20) a cui poco dopo segue, sempre in Luca: «Ma guai a voi ricchi perché avete già la vostra consolazione» (6,24).
Come si vede, le differenze tra le due dizioni non sembrano molte, eppure sono assai importanti. Anzitutto, quell’inciso “poveri nello spirito”, presente in Matteo che ci fa immediatamente capire una cosa. E cioè che quando Gesù parla di povertà, evidentemente non si riferisce solo a quella materiale. Se così fosse, infatti, l’inciso stesso si rivelerebbe del tutto superfluo. Però, al contempo, l’avvertimento che Luca riporta: «Ma guai a voi ricchi perché avete già la vostra consolazione » testimonia in modo evidente che Gesù mette comunque in guardia dalla ricchezza materiale come da qualcosa che rischia di compromettere l’equilibrio e il destino dell’intera vita.
Che questo sia vero, ce lo confermano numerosi altri passi evangelici che ugualmente cercano di farci capire quale sia il pericolo del possedere in questa terra molti beni e quali dunque siano le scelte da fare per evitarlo.
Anzitutto l’episodio, riportato da tutti e tre i sinottici, di quel giovane ricco, il quale, già scrupoloso osservante della legge, colpito da Gesù, gli si avvicina desideroso di chiedergli che altro può fare per ottenere la vita eterna. Ma che poi, di fronte alla proposta di lasciare tutto per seguirlo, se ne va via “triste” perché, avendo “molte ricchezze”, si ritrova incapace di fare ciò che il Maestro gli suggerisce.
Io credo che quel solo aggettivo: “triste” sia assai più eloquente di molti discorsi che si sarebbero potuti fare su quale sia lo stato d’animo interiore di chi rifiuta la possibilità di cogliere al volo “Gesù che passa”, per usare un’espressione cara a san José Maria Escrivà de Balaguer. Se ci pensiamo, una alterazione così profonda da poter essere colta anche da chi gli sta intorno; una mancanza di gioia che trapela persino nell’atteggiamento esteriore del corpo e del viso. È a questo punto che Gesù coglie l’occasione per far capire a quanti lo stavano seguendo e ascoltando che possedere molti beni materiali è davvero un pericolo perché: «Difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli (essendo) più facile che un cammello passi per la cruna di un ago» (Mt 19,16; Mc 10,25 e Lc 18,25).
Occorre dire che attorno a quel “cammello”, preso come esempio delle difficoltà interiori create dalla ricchezza materiale, sono nate molte perplessità tra gli esegeti. Per esempio, Jean Carmignac, il biblista francese che ha sostenuto, e con solide ragioni, l’origine dei Vangeli sinottici da una base aramaica non sempre ben tradotta, dimostra come la versione giusta del termine usato da Gesù sarebbe non cammello ma “gomena”, cioè la grossa fune impiegata sulle barche. Termine certamente più appropriato in riferimento alla cruna d’ago di cui si sta parlando. Che tuttavia, in pratica, non diminuisce affatto la difficoltà a cui Gesù allude di staccarsi da ciò che si possiede.
Discorso, questo attorno alla ricchezza materiale, che Gesù, del resto, riprenderà numerose altre volte cercando sempre di andare al fondo del problema, spiegandone i motivi. Come in Matteo (6,21) quando chiarendo che: «Là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore» poco dopo (Mt 6,24 ) aggiunge che: «Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro» perché non si può: «servire a Dio e a Mammona». Sì, “servire a Mammona” cioè ad una ricchezza che, bramata e custodita con affetto smodato, diventa un vero e proprio “idolo”. Qualcosa, cioè, che cattura il cuore e lo disorienta, allontanandolo da Dio.
Quanto poi alla breve consolazione per coloro che hanno goduto di molti beni in questo mondo, dice assai bene la parabola del ricco Epulone, il quale, giunto nell’aldilà e costatata la sua sorte in confronto a quella di Lazzaro, il mendicante che in vita era vissuto di povere elemosine, vorrebbe addirittura avvisare i fratelli di ciò che li aspetta, se non cambiano vita.
Sì, proprio così: se non cambiano vita. Ecco, dunque, il passaggio indispensabile capace di trasformare la ricchezza da pericolo per la vita spirituale in uno strumento positivo. In una risorsa da utilizzare per esprimere l’amore verso Dio e verso il prossimo. E cioè una conversione vera che liberi davvero il cuore, che lo stacchi dalle ricchezze e che lo renda capace di rivolgere il proprio sguardo su chi in mille modi ha bisogno, per venire in suo soccorso e aiutarlo. È sempre Gesù a dirci che questo cambiamento, pur difficile, è realizzabile perché «ciò che è impossibile agli uomini è possibile a Dio». Purché tuttavia si sappia cogliere, riconoscere e accettare il tocco della sua grazia. Come dimostra Zaccheo, l’odiato raccoglitore di tributi per Roma che tuttavia non solo accoglie subito Gesù nella sua casa, ma ne comprende anche il messaggio. E che, per “rinascere dall’alto”, inizia proprio con il donare ai poveri la metà dei suoi beni.
Per riassumere: se la ricchezza materiale è un rischio, non è tuttavia in se stessa una certezza di perdizione, perché è sempre possibile quel cambiamento che porta a un uso corretto dei beni terreni e a una attenzione sincera verso coloro che hanno bisogno. Per contrapposto, però, anche la povertà materiale, come ci fa intendere Matteo, non è di per se stessa una garanzia di santità. È certamente guardata, a differenza della ricchezza, con compassione e benevolenza da parte di Dio che, nella sua giustizia, la saprà a suo tempo compensare. Però, essa non è una sorta di passaporto che fa necessariamente accedere al bene perché anche il cuore del povero può nutrire molti attaccamenti negativi.
Così, la povertà a cui si riferisce Gesù, quella che davvero fa salire il primo gradino verso la beatitudine, è qualcosa che riguarda tutti, perché va ben al di delle apparenze che dividono gli esseri umani in ricchi o poveri. È qualcosa che penetrando fin nell’intimo deve appunto, come dice Matteo, raggiungere lo “spirito”, cioè le profondità stesse dell’essere, sradicandolo da ogni idolatria. Cosa che vedremo la prossima volta.
Ricorda
«La vera povertà non consiste nel non avere, ma nell’essere distaccato: nel rinunciare volontariamente al dominio sulle cose. Ecco perché vi sono dei poveri che in realtà sono ricchi. E viceversa».
(San Josemaría Escrivá, Cammino, n. 632).
IL TIMONE N. 130 – ANNO XVI – Febbraio 2014 – pag. 56 – 57
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