C’è una virtù che non viene enumerata tra quelle ritenute fondamentali – le tre teologali: fede, speranza e carità; e le quattro cardinali: prudenza, giustizia, fortezza, temperanza – ma che tuttavia appare importantissima perché, se la guardiamo con attenzione, alla fine si rivela come una sorta di humus indispensabile ad ogni altra virtù, una sorta di necessità della quale non è possibile fare a meno.
Scrive Balzac nelle sue Illusioni perdute: «La pazienza è ciò che nell’uomo più somiglia al procedimento che la natura usa nelle sue creazioni». Osservazione formidabile. Solo Dio ha il potere di trarre in un istante dal nulla ogni cosa. Solo da lui è venuta all’improvviso quella luce, quella energia dalla quale – che abbiano più o meno ragione gli evoluzionisti – il mondo ha tratto origine. Solo dalla sua eternità senza passato e senza futuro, solo dal suo presente senza fine ha potuto essere tratto il tempo, cioè quell’insieme di istanti che si susseguono uno all’altro in un processo continuo e inarrestabile. Così, ogni cosa creata, uomo compreso, è inserita in questa dinamica che inevitabilmente ne accompagna la nascita, la vita, la morte. E che è profondamente intrisa di pazienza, cioè di quella capacità di attesa che il tempo lentamente ma inesorabilmente trascorra, svelando progressivamente potenzialità e destini di ogni esistenza.
Affascina, questa prospettiva. Così, riflettiamoci un po’ sopra. Che cos’è se non pazienza quell’aspettare che un seme muoia e poi germogli la pianta; che questa cresca, ramifichi, fiorisca, fruttifichi e infine di nuovo sparga i suoi semi perché, sempre con il tempo necessario, cioè con la dovuta pazienza, il processo ricominci e giunga ancora una volta a compimento? Che cos’è se non pazienza quell’attendere ogni anno che il ciclo naturale delle stagioni si compia? Che alla primavera piena di fermenti e promesse segua la maturità dell’estate, il disfacimento un po’ triste dell’autunno, premessa tuttavia necessaria per quel riposo invernale che una volta ancora, sino alla fine del tempo, ridarà inizio alla primavera? Che cos’è – infine, e ancora una volta – se non pazienza, quell’attesa che un piccolo embrione formatosi nel grembo materno, per nove mesi poco a poco sviluppi e cresca, fino a dar vita a quell’essere incredibile e meraviglioso che è l’uomo? E che quest’ultimo, una volta venuto alla luce, inizi un lento processo di apprendimento che lo porterà versò la maturità e poi alla vecchiaia e infine alla morte?
Il tempo, dunque, questo sfondo nel quale Dio ha inserito la vita in tutte le sue forme, comporta per sua stessa natura l’attesa che il presente, mentre si trasforma lentamente e progressivamente in passato, sia, allo stesso modo, portatore e generatore di futuro.
Cosicché, ogni istante della vita naturale del mondo e nostra è, al contempo, un “già” e un “non ancora”, un evento che si è in parte compiuto, ma che pazientemente attende una ulteriore, continua, progressiva realizzazione.
Ma se è così per gli eventi fisici, se dunque tempo e pazienza sono i due agenti principali delle leggi che regolano la vita del mondo, non diversa è la situazione per il mondo dello spirito. I processi non sono identici, però sono analoghi. Meglio di me può certamente dirlo un grande santo, quel Francesco d’Assisi la cui spiritualità ha attraversato i secoli, giungendo con freschezza inesauribile fino ai nostri giorni. Tra i Fioretti raccolti dai suoi frati ce n’è uno che dovevano avergli sentito ripetere più volte e che recita: «La pazienza è opera di perfezione e prova di virtù». In poche parole, ecco una sintesi efficacissima di un aspetto fondamentale della vita interiore.
Come dire che chi è davvero paziente con se stesso e con gli altri è seriamente avviato sulla via della vera imitazione del Padre che sta nei Cieli e di suo Figlio Gesù, che è sceso tra noi. Non narra forse la Scrittura di un Dio che è «pietoso e pronto alla compassione, lento all’ira e ricco in misericordia e in fedeltà»? Non ci ricorda forse che il Verbo incarnato si è fatto «paziente fino alla morte e alla morte di Croce»? Non ci apre forse alla speranza, rammentandoci che la pazienza è tra i doni che lo Spirito reca al cuore di chi gli si affida con fiducia?
Anche il nostro spirito, dunque, così come il nostro corpo, vive nel tempo e partecipa di questa circostanza. Così, anche la redenzione operata da Gesù Cristo è una ricchezza della quale entriamo a far parte poco a poco, mano a mano che la nostra coscienza è in grado di coglierla e di assimilarla. Passo dopo passo, stagione dopo stagione, verrebbe da dire, diventiamo consapevoli del destino che ci è stato attribuito, dello stato di peccato nel quale siamo invischiati, della grazia che ce ne può liberare. Per questo, la nostra vita interiore, proprio come quella della natura che ci circonda, vive un alternarsi continuo di morti e di risurrezioni, di discese agli inferi e di rinascite, di bagliori di luce e di momenti di tenebre. Per questo, se la fede, la speranza e la carità sono le virtù fondamentali, la pazienza è però la madre di ogni altra virtù, perché è quella che ci consente di vivere nel tempo l’attesa di Dio con tutto quello che ciò comporta: la nostra quotidiana e progressiva conversione fatta spesso di alti e bassi, di giorni in cui tutto sembra facile e altri in cui mantenersi vicino al Signore appare arduo come scalare una montagna.
Credo che ognuno di noi potrebbe facilmente testimoniare di aver vissuto momenti in cui si è ritrovato stanco di se stesso e degli altri, sopraffatto dalle difficoltà del vivere, eccitato da un’ira magari anche giusta, sbattuto qua e là dalla piovra della depressione oppure dai demoni dell’odio, del rancore, della vendetta. Certo, in casi come questi ci soccorrerà la fede, ma come fare, se non attraverso la pazienza, a coltivare quella speranza che consente la perseveranza? Come fare, se non assecondando quella mitezza che nasce proprio dalla pazienza, per lasciare che i tempi di Dio si manifestino, che la sua grazia venga in nostro soccorso? Come accettare il peccato nostro e degli altri senza cadere nella disperazione, anzi lasciando a noi e ai fratelli lo spazio per una consapevolezza che porti al pentimento e ad una maggiore maturità spirituale?
Diceva bene San Cipriano quando nel suo De bono patientiae elogiava questa grande virtù, esortandoci a coltivarla con impegno poiché essa «tempera l’ira, frena la lingua, sostiene il pensiero, custodisce la pace, rompe l’impeto della concupiscenza, reprime la violenza dell’orgoglio, spegne il fuoco dell’odio, insegna a perdonare, vince le tentazioni, sopporta le tribolazioni». In una parola, proprio questa benedetta pazienza permette al nostro cuore di apprendere e al nostro spirito di crescere fino alla statura di veri figli di Dio.
«Il mondo è redento dalla pazienza di Dio e distrutto dall’impazienza degli uomini».
(Benedetto XVI, Santa Messa, per l’inizio del ministero petrino, Piazza San Pietro, 24 aprile 2005).