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12.12.2024

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Best, Long & World-sellers
31 Gennaio 2014

Best, Long & World-sellers

 

 

 

 

Mercoledì 25 ottobre u.s. ero comodamente seduto in una delle lussuose poltrone dell'auditorium di via Giotto a Milano, quello delle Paoline, per intenderci. Era in atto il Quinto Convegno della rivista Letture, già dei gesuiti ed ora dei paolini. Tema: “qual è il segreto dei bestsellers?”. Relatori annunciati: Christian Jacq, Luca Goldoni, Marco Butkchi, Beppe Severgnini, Valerio Massimo Manfredi, Manuel Vasquez Montalban, Maria Venturi, Sveva Casati Modignani, Vittorio Messori. Moderatore, Corrado Augias. In realtà, poi, non c'erano il Montalban e la Casati Modignani.  In compenso c'era Luciano De Crescenzo.
Salutati dal direttore della rivista, don Antonio Rizzolo, in sala erano presenti intere scolaresche, editors, addetti stampa, giornalisti e personalità della cultura cattolica (e no) come Ferruccio Parazzoli. L'auditorium intitolato al venerabile don Alberione, fondatore della famiglia paolina, era ben stipato di gente attenta e interessata. Anche perché, alla fine, veniva offerto un sostanzioso buffet, al quale non si è mancato di fare onore. Era previsto il pranzo (pardon, si dice “colazione”), ma solo per i bestselleristi.
Lo dice il Vangelo: a chi ha, sarà dato. Invidia, da parte mia? Certo, e da morire.
Non tanto per il pranzo (quello, grazie a Dio, sono ancora in grado di procurarmelo da solo), quanto per il circolo degli happy few, ai quali si poteva essere ammessi solo con qualche centinaia di migliaia (almeno) di copie vendute sulla coscienza. Non sono così ipocrita da nascondermi dietro un dito; il sogno di chi scrive è quello di diventare best-seller (traduco alla lettera: miglior venditore). Ma anche, possibilmente, Longseller e magari worldseller. Chi scrive vuole essere letto. Soprattutto, comprato.
I relatori hanno cercato di spiegare come si fa un bestseller, ma l'unica cosa rimasta chiara in testa agli astanti è questa: ci vuole anche fortuna. Mi girava il capo, dopo un po', a sentire di milioni di copie vendute, di traduzioni in trentacinque lingue, di miliardi in diritti di autore.
Ad essere sinceri (e moderatamente faziosi), l'unico che in qualche modo poteva schivare l'accusa di “fortunato” era Messori: la sua carriera è iniziata col famoso Ipotesi su Gesù, best, long e world-seller. Pubblicato con una casa editrice minore, era solo uno tra le migliaia di titoli dedicati a Gesù. Uscito nel 1976, cioè in pieni “anni di piombo”, era senz'altro il tema più lontano dalla “sensibilità del pubblico” che si potesse immaginare.
Eppure il suo successo è stato travolgente, e ancora perdura. Non solo.
E' un saggio, non un romanzo. Dunque, non è stato affatto un sei al superenalotto, ma un lavoro meditato e, ancora oggi, insuperato. Messori ha creato uno stile e una scuola, mostrando come l'apologetica cattolica (una disciplina data per persa) possa diventare un fenomeno di massa anche nel XX-XXI secolo.
Ma torniamo alla giornata dei bestselleristi. Li guardavo, dalla mia terza fila, schierati sul palco, seduti dietro il lungo tavolo e davanti ai microfoni.
Battute, applausi, domande. E pensavo, ascoltando il francese Jacq: nemmeno se mi vendessi come schiavo potrei sperare in un successo planetario quale quello della sagra di Ramses. Anche perché di uno schiavo cinquantenne e fumatore non so chi potrebbe farsene qualcosa. Fioccavano le boutades molto british di Severgnini e quelle partenopee di De Crescenzo.
Venivano evocate le ombre di Susanna Tamaro e di Andrea Camilleri. Ma io pensavo anche a Umberto Eco e Stephen King, e poi Ken Follet, Harry Potter e via bestsellerando.
Sempre più sprofondato nella depressione, a un tratto vidi il Relatore Silenzioso, quello che stava dietro a tutti, inchiodato sulla parete, scuro e crocifisso, da un lato, in grandezza naturale. Sì, c'era sempre stato, cosa mi aspettavo nell'auditorium paolino? Ma la mia attenzione era stata attratta dai bestselleristi: per quelli ero venuto. Alto, dietro a quelle persone che raccoglievano meritati applausi per il loro successo, stava, con la testa reclinata, il Grande Fallito.
Guardavo Lui e guardavo loro. E alla fine mi sono vergognato della mia invidia. No, non perché mi ero reso colpevole di un Peccato Capitale (l'Invidia, infatti, è uno di quei sette che al catechismo non si insegnano più). La mia non era, non è un'invidia distruttiva, di quelle che augurano il male al prossimo più dotato. È un'invidia buona, che spinge all'emulazione, ai lavoro duro e all'impegno. Ma quel Crocifisso sullo sfondo operava uno strano, evangelico, contrasto. Cristo, pur potendosi permettere altro, ha scelto la via del fallimento umano. Totale. Si deve dunque fare come Lui? È così che va interpretato il suo consiglio di “scegliere l'ultimo posto”?
No, sarebbe troppo facile. Potrebbe diventare un alibi per sfaticati e piagnoni. Il successo di Messori, poi, dimostra che il “complotto” della cosiddetta “cultura laica” contro gli autori cattolici semplicemente non esiste.
Sì, si tratta pur sempre di andare controcorrente, ma quando mai il cattolicesimo autentico è stato popolare?
Comunque, Messori dimostra che il talento e l'abilità non temono il “mercato”. Allora? Allora gli evangelici gigli del campo e uccelli del cielo insegnano a non prendersela troppo. “Non è in potere dell'uomo la sua via”, dice Giobbe. Lavorare, dunque, e battersi. Per i risultati, lasciar fare a Lui. E se fallisco? “Dio può far sorgere figli di Abramo anche dalle pietre”, dice il Battista. Servi inutili, siamo. Tutti.


IL TIMONE  N. 12 – ANNO III – Marzo/Aprile 2001 – pag. 50-51

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