L’autore del Deserto dei Tartari nasceva un secolo fa a Belluno. Fu artefice di una letteratura complessa e suggestiva, nella quale si intuisce il dramma di una fede a lungo inseguita sotto il peso di una vita segnata dall’inquietudine.
Un Novecento monotono e belligerante
Dino Buzzati nacque il 16 ottobre del 1906 nei pressi di Belluno ma i suoi genitori risiedevano a Milano: il padre, docente all’uni-versità Bocconi; la madre, della famiglia dogale Badoer Partecipazio. Frequentò il ginnasio Parini e si iscrisse alla facoltà di Legge: un esordio di curriculum usuale per intere generazioni “borghesi”. Del resto, Buzzati fu un capitolo dell’autobiografia degli italiani “moderni”.
Poesia, musica (violino e pianoforte), disegno e montagna i suoi compagni: «Penso – disse Buzzati in un’intervista a Il Giorno il 26 Maggio 1959 – che in ogni scrittore i primi ricordi dell’infanzia siano una base fondamentale. Le impressioni più forti che ho avute da bambino appartengono alla terra dove sono nato, la valle di Belluno, le selvatiche montagne che la circondano e le vicinissime Dolomiti. Un mondo complessivamente nordico, al quale si è aggiunto il patrimonio delle rimembranze giovanili e la città di Milano, dove la mia famiglia ha sempre abitato d’inverno».
In estate, escursioni, scrittura e disegno; Dostoevskij e l’egittologia.
La morte precoce del padre (nel 1920, per un tumore al pancreas) causò in lui il timore di essere colpito dallo stesso male: timore che lo accompagnerà per tutti i suoi giorni. Scriverà in una poesia tarda: «Chopin discese dalle mansarde di Dio, ti colpì per sempre alla nuca, facendoti grande ed infelice». Il 10 luglio del 1928, ancor prima di concludere gli studi in legge, Buzzati entrò come praticante a Il Corriere della Sera: il destino è segnato, sarà uno scrittore-giornalista.
A tale condizione avrebbe però potuto sottrarsi, se si fosse dedicato di tutto cuore al romanzo: infatti, nel ’33, ebbe successo con il suo “Barnabo delle montagne”. Anche se due anni dopo “Il segreto del Bosco Vecchio” arrivava in libreria senza essere accolto con lo stesso favore. Oramai Buzzati lavorava di notte in redazione e rincasava verso le tre, quando la città era immersa nel silenzio: lo scenario onirico di tante sue narrazioni. Una volta prese carta e penna ed incominciò: «Nominato ufficiale, Giovanni Drogo partì una mattina di settembre per raggiungere la fortezza Bastiani, sua prima destinazione»: l’inizio de “Il deserto dei Tartari”.
«Molto spesso – ammise in un’intervista – avevo l’impressione che quel tran-tran dovesse andare avanti senza termine e che mi avrebbe consumato così inutilmente la vita. È un sentimento comune, io penso, alla maggioranza degli uomini, soprattutto se incasellati nella esistenza ad orario delle città. La trasposizione di questa idea in un mondo militare fantastico è stata per me quasi istintiva: nulla di meglio di una fortezza all’estremo confine, mi parve, si poteva trovare per esprimere appunto il logorio di quell’attesa». Era un comun sentire non certo di tutti gli italiani, ma di buona parte sì.
Cronache dalle regioni del mistero
Nel ’39 il manoscritto de “Il deserto dei Tartari” finì nelle mani di Leo Longanesi, giornalista, che stava preparando una collana per Rizzoli chiamata il “Sofà delle Muse”: così, per insistenza di Indro Montanelli, anch’egli giornalista, si pubblicò quello che Buzzati considererà “il libro della sua vita”. Nello stesso anno si era imbarcato alla volta di Addis Abeba, fotoreporter del Corriere; fu poi corrispondente di guerra sull’incrociatore Fiume. Partecipò così, da inviato speciale, alla battaglia di Capo Matapan e della Sirte. Sarà sua anche la cronaca apparsa sulla prima pagina del Corriere il 25 aprile 1945.
Nel dopoguerra, notevoli “La famosa invasione degli orsi in Sicilia”, storia apparentemente per bambini disegnata dall’autore, e i pezzi scritti al seguito del Giro d’Italia. E la notorietà venne: Camus adattò per il pubblico francese il copione di “Un caso clinico”, rappresentato a Parigi; lo stesso anno, un racconto musicale ricevette musiche da Chailly.
Nel ’58 la sua prima personale di pittura alla Galleria Re Magi di Milano. Seguiranno anni di viaggi come inviato del giornale: Tokio, Gerusalemme, New York, Washington e Praga, dove visitò le case di Kafka, l’autore con cui la critica ha stabilito un gemellaggio con Buzzati.
L’8 dicembre 1966 si sposò con Almerina Antoniazzi. Libri, mostre e rappresentazioni si infittivano: i grotteschi “ex-voto di Santa Rita”, da lui dipinti con il titolo de “I miracoli di Val Morel”, recuperarono la religiosità popolare stravolgendola con lo sguardo di chi confonde mistero e incomprensibilità.
Buzzati era gravemente malato e ne era consapevole: il 1° dicembre 1971 visitò per l’ultima volta la casa di San Pellegrino per una sorta di addio, e sette giorni dopo usciva sul Corriere l’ultimo elzeviro intitolato “Alberi”.
Ricoverato alla clinica “La Madonnina” di Milano, morì il 28 gennaio 1972 mentre fuori imperversava una bufera di vento e di neve.
Aveva scritto tanti anni prima: «In certe notti serene, con la luna grande, si fa festa nei boschi. È impossibile stabilire precisamente quando, e non ci sono sintomi appariscenti che ne diano preavviso. Lo si capisce da qualcosa di speciale che in quelle occasioni c’è nell’atmosfera. Molti uomini, la maggioranza anzi, non se ne accorgono mai. Altri invece l’avvertono subito. Non c’è niente da insegnare in proposito. È questione di sensibilità: alcuni la posseggono di natura; altri non l’avranno mai, e passeranno impassibili, in quelle notti fortunate, lungo le tenebrose foreste, senza neppur sospettare ciò che là dentro succede».
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