Anche davanti al mistero della morte, il Canto, se vero, è testimone di una Speranza vera. Di una nuova Vita, senza fine.
Mentre i fari della macchina cercano di perforare l’ovatta nebbiosa che non ne vuole sapere di dileguarsi, ripenso alla mia “strana” giornata. Sto tornando da un funerale: sono andato a cantare alcune mie canzoni ad un funerale e non è certo la prima volta, anzi, forse in tutti questi anni, sarà successo 2/300 volte. E io non riesco, per grazia di Dio, a farci l’abitudine e, in verità, più passa il tempo e più faccio fatica, ma quando ti chiama un figlio che ha perduto il padre o dei genitori che hanno perso una figlia o una donna rimasta improvvisamente sola, non puoi mica dire “mettete su un CD”!
“Gli piacevano tanto le tue canzoni, vieni ti prego!” e io, a volte, non riesco nemmeno a ricordare il volto o, forse, non l’ho proprio mai visto.
Faccio fatica si, faccio molta fatica perché anch’io sono padre, marito e sono stato figlio, ma di fronte a una richiesta così semplice e disarmante credo che farei molta più fatica a non andare.
Devo anche specificare che, sin dalle prime volte, ho fatto un voto di non accettare neppure una lira a nessun titolo in queste occasioni, anche se il luogo è lontanissimo; lo dico nell’eventualità che qualche giornalista particolarmente illuminato si impossessi della notizia e pregusti uno scoop.
Vado sempre senza chitarra e cerco di cantare le mie canzoni più semplici e popolari come Lasciati fare, Perdonami mio Signore, Il seme, lo non sono degno, Lui mi ha dato i cieli, Ave Maria splendore del mattino, Non avere paura, Se non ritornerete come bambini e altre.
Potrà sembrare strano, ma non amo molto, soprattutto in queste occasioni, l’uso della chitarra in Chiesa: un canto, se vale, deve potersi sostenere da solo, come il gregoriano o i più antichi e diffusi canti della tradizione popolare.
Ma oggi ho fatto molta fatica e cercavo di non commuovermi per cantare bene senza che la voce, come succede, si rompesse: il mio amico di cui non riuscivo a ricordare il volto se lo meritava. Gli amici erano tanti e io fissavo il volto della moglie e dei figli, cinque, ed erano loro ad incoraggiarmi con gli occhi e io mi chiedevo per quale strano Destino io, proprio io, avevo il privilegio di fargli compagnia con il mio canto?… ma perché a me questa terribile e misteriosa Grazia?
Avvertivo tutta la mia indegnità e la mia impostura, ma non potevo giudicare con quelle il mio canto, anzi… era il Canto che giudicava me: questa storia di Vita e di Morte è più grande di me, io devo solo esserci, con la voce rotta, con la faccia stanca, con un dolore segreto dentro; e la Speranza che è dentro la canzone non posso fingerla, non posso nemmeno sforzarmi di “sentirla”, devo viverla.
E poi la gente ha cominciato a cantare con me per sostenere il mio canto insicuro, per dire alla moglie e ai figli: “Siamo qui con voi, non è finita, siamo qui con lui, siamo qui con quel Dio a cui lui, voi e noi abbiamo affidato la vita”.
Ho sempre sostenuto che se una canzone è vera di fronte alla morte, allora è vera per tutta la vita, ma se non è vera e scompare davanti al terribile mistero, allora anche nella vita non serve a nulla, se non a riempire un vuoto, una delle tante intercapedini di una fragile struttura umana. Quello che ho visto oggi, e che non posso fare a meno di notare ogni volta, è che ho visto un Popolo, che la Chiesa è un Popolo e che nel dolore, come in questo caso, o nella gioia, come per un battesimo o un matrimonio, questo Popolo si vede, è evidente: ci tengo a dire che la gente di oggi era di diverse estrazioni e proveniva da varie esperienze di vita ecclesiale e non, non si trattava di una setta o di un clan, e i preti, numerosi, che celebravano la Santa Messa venivano da esperienze anche lontane tra loro, ma la consapevolezza di affacciarsi alla “Comunione dei Santi” dove l’amico ci ha preceduto rendeva evidente il Popolo.
Già, e dove è più ormai questo Popolo così dimentico delle sue radici, della sua fede e del suo destino, da lasciarsi vivere davanti ad un elettrodomestico come il televisore, risvegliarsi furiosamente in uno stadio o artificialmente in una discoteca, adorare il denaro tanto da non potere fare a meno di frequentare le banche quotidianamente e così immemore da lasciare che l’ultima parola su di lui sia detta dalla politica o peggio dalle lotte tra partiti?
È necessario non dimenticare e anzi fare memoria della propria Cultura e della propria Storia, dei propri doni e dei propri talenti come spesso chi soffre ci insegna e ci testimonia. Sono rimasto edificato dalla grande dignità di una popolazione come quella del Molise colpita dal recente terremoto, come lo ero stato dagli abitanti delle Marche e dell’Umbria pochi anni fa, o dai friulani parecchi anni fa; e così ho telefonato al parroco di San Giuliano, don Ulisse, e gli ho detto: “Vengo a cantare da voi, per stare insieme, per farci compagnia, per portare un briciolo di condivisione e di speranza con una canzone; il pane e i mattoni sono importanti, ma la coscienza e la Speranza anche, e come!”.
Ricordo le altre volte i concertini nelle tende fradice di acqua, nelle baracche e nei containers e poi via veloci, portati dalla protezione civile o dai volontari in un paese e poi in un altro e conservare in cuore lo sguardo pieno di gratitudine di un vecchio prete o di una donna o dei ragazzi e dei bambini che conservano sempre la voglia di giocare, di vedere, di toccare quello che loro credono un cantante e invece, per fortuna, è solo un cantastorie o meglio un cantaStoria di un popolo che rinasce, che ricorda, che ricomincia a vivere e sa che può sperare.
Dicevano gli antichi che non c’è nulla di peggio di un popolo che dimentica i suoi poeti; e invece c’è di peggio: un poeta che dimentica il suo popolo.
Esserci per ricordare, per sperare, per ricominciare, questo è il compito.
IN QUESTA
NOTTE SPLENDIDA
IL TIMONE N. 23 – ANNO V – Gennaio/Febbraio 2003 – pag. 48 – 49
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