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12.12.2024

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Catechismo. La fede dissociata
2 Dicembre 2014

Catechismo. La fede dissociata

La fede dissociata

Oggi si ritiene che il problema contemporaneo sia l’assenza di fede. In realtà, la fede è ancora molto presente nella società. Il problema è invece che la fede, specie nel nostro mondo occidentale, è una fede dissociata. I cristiani, sostanzialmente, credono nelle verità di fede, e la maggior parte di loro ritengono veri i precetti morali della Chiesa, ma la loro vita è spesso dissociata. Non si tratta di semplice incoerenza, ma di scissione pratica e permanente tra il proprio credo e il proprio vissuto. I cristiani dissociati vivono in uno stato di rassegnazione questa scissione, che ormai ha messo radici nella propria vita come un fatto ineludibile.
Salvo qualche eccezione, essi generalmente non giustificano teologicamente tale scissione, non predicano una fede diversa e più “allargata”, anzi, sono spesso portatori di una morale restrittiva, ma in qualche modo hanno adattato il loro stile di vita a comportamenti che la loro ragione considera ormai inevitabili.
Questa scissione fra fede e vita non è in realtà un problema contemporaneo.
Già nell’antichissimo Pastore di Erma (un manoscritto del II secolo) si considera il problema dei «dissociati che hanno il Signore sulle labbra ma non nel cuore. Per questo la loro base è secca e non ha forza. Solo le loro parole vivono, mentre le loro opere sono morte»; e di loro viene detto: «I dissociati, in verità, non sono né verdi né secchi, né vivono né sono morti » (XCVIII, 21).
Le cause della dissociazione possono essere due, diametralmente opposte: l’eccessiva rigidità della norma, o una fede non sufficientemente matura. Anche Gesù s’imbatté nel problema della dissociazione, per esempio quando sgridò i dottori della legge dicendo loro: «Guai a voi, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito!» (Lc 11,46). Qui, Gesù sembra quasi indicare la causa della dissociazione nei “troppi pesi” messi sulle spalle dei credenti: una dottrina morale troppo rigida che finisce per provocare l’effetto opposto: il lassismo pratico. Un grande docente di teologia morale in età contemporanea, monsignor Giovanni Battista Guzzetti, amava dire: «L’eroismo non è da tutti, ed anche per coloro che lo è, non lo è mai troppo a lungo». Quando le richieste sono troppe, l’uomo alla fine se le scrolla di dosso. Reagire irrigidendo la norma, senza realizzare una pedagogia globale della persona, non ha mai nella storia contribuito a dare buoni risultati, anzi ha spesso provocato fughe di credenti, o generato reazioni come quelle di chi va ironicamente dicendo: «Il cattolicesimo? Un’ottima religione, dall’ombelico in su», quasi ad affermare una sostanziale impraticabilità del cattolicesimo in alcune componenti della persona, soprattutto quelle della corporeità e della sessualità.
Anche Gesù s’imbatté nelle contraddizioni della sua epoca, affrontando questioni fortemente attuali come quella dell’adulterio. Ma non reagì rendendo meno rigida la norma; anzi la inasprì: «Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore» (Mt 5,28). Lo stile di Gesù non era infatti quello di rendere meno rigida la norma, ma nel Vangelo è ben evidente la pedagogia globale del Salvatore.
Egli rimediava alla dissociazione mettendo al centro la persona. Quando s’imbatté nell’adultera da lapidare, non attenua affatto il suo errore (infatti le dice: «Va, e d’ora in poi non peccare più»), ma recupera la persona con un comportamento inclusivo che salva: «Neanch’io ti condanno» (Gv 8,11). La condotta morale esclusiva, che condanna senza salvare, degenera infatti in moralismo inefficace, e non provoca conversioni ma allontanamento.
La distinzione tra peccato e persona è fondamentale nell’agire cristiano; quando quest’ultima si sente amata e accolta ritrova un percorso personale di salvezza.
Ma non sempre è facile ottenere l’equilibrio tra il necessario sforzo di migliorarsi e il fare pace con se stessi, tra il correggersi e l’accettarsi. Eroismo è a volte anche saper accettare i propri limiti, riuscire a dire: sono zoppo, e da zoppo seguo il Cristo. L’importante è evitare sempre lo scoraggiamento, sapersi rialzare nelle cadute senza pretendere di saper
immediatamente volare. Per riuscire in tutto questo, è necessario affidarsi a un’opportuna guida spirituale. E soprattutto confidare nella grazia: non combattere mai da soli il proprio combattimento spirituale, ma, come dice San Paolo, «Rivestitevi dell’armatura di Dio» (Ef 6,11): è infatti la grazia a vincere in noi, perché «Io ho vinto il mondo» (Gv 16,33). â–

 
Il Timone – Dicembre 2014

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