Riprendo il discorso iniziato il mese scorso: davanti al nazismo ci fu, da parte della Chiesa cattolica, almeno a livello ufficiale, condanna severa dell’antisemitismo (parola per indicare un’ideologia anticristiana, non a caso sconosciuta al vocabolario sino al XIX secolo), ci fu un deciso rifiuto del razzismo in senso biologico, ci fu l’orrore per ogni violenza e ingiustizia.
Se, dunque, la condanna per Hitler fu senz’appello, ci fu invece comprensione clericale per Mussolini e le sue leggi che, più che come razziali, furono presentate dai fascisti come discriminatorie, come misura di “legittima difesa”. Il motto “non perseguitare ma separare” fu a tal punto sostenuto, per decenni, dall’ufficiosa Civiltà Cattolica che, quando nel 1938 quelle leggi furono promulgate, sui giornali del Regime fu tutto un fiorire di lodi per “la preveggenza e la fermezza” dei gesuiti e, con loro, della Gerarchia. E’ un fatto oggettivo che la comunità cattolica si mobilitò – checché ne dicano i coriacei diffamatori – per salvare la vita agli ebrei quando furono minacciati di deportazione e, dunque, di morte, da parte dei tedeschi. Ma non protestò fino a quando ebbero vigore le leggi italiane di discriminazione che – escluso, non lo si ripeterà mai abbastanza, ogni sospetto di razzismo e di violenza – almeno in parte rispondevano alle sue attese.
Rimando, comunque, per completezza, all’articolo del mese precedente. Qui, come da promessa, cercheremo di capire le ragioni della prospettiva assunta da quei nostri predecessori nella fede: prima di scandalizzarsi, occorre esaminare in che modo giudicassero e decidessero, secondo esperienza e prudenza. Come dicevo, mi baserò in particolare (come sintesi significativa) sui tre articoli sulla ”questione giudaica“ pubblicati nel 1890 dal padre Raffaele Ballerini e sulle raccolte della Civiltà Cattolica dopo i provvedimenti fascisti del 1938, quando il giornale ammise qualche “acerbità di linguaggio” del confratello del XIX secolo, ma confermò la sostanza del suo argomentare.
Innanzitutto, il padre Ballerini constata che «il giudaismo da secoli ha voltato le spalle alle legge mosaica, surrogandovi il Talmud, quinta essenza di quel fariseismo che in tante guise venne fulminato dalla riprovazione di Gesù il Cristo». In effetti questa è una questione reale: anche oggi, sarebbe bene far chiarezza, a vantaggio di quel dialogo ecumenico dove spesso i cattolici si confrontano con un interlocutore che è diverso da quello che immaginano. Nella catastrofe del 70, con la distruzione del Tempio e la diaspora dei sopravvissuti, scomparvero praticamente tutti i gruppi e le sette del giudaismo. Il quale, da allora, fu contrassegnato quasi solo dal fariseismo. Furono i rabbini di quella corrente a creare i due smisurati, complessi, labirintici commenti, discussioni, raccolte di episodi e di aneddoti che formano i due Talmud, quello di Gerusalemme e quello di Babilonia. Comunque, quando il padre Ballerini scriveva (e, in parte, ancora oggi) il mondo israelitico era composto per una parte da ebrei ormai secolarizzati quanto a credenze religiose, anche se spesso legati alle loro radici da una fedeltà alle antiche tradizioni, vissute in modo “laico“. Molti tra costoro facevano parte della massoneria o, se non partecipi delle Logge, ne condividevano la prospettiva di filantropia laica e, soprattutto nei Paesi latini, di militante anticattolicesimo. Quanto alla parte dell’ebraismo che aveva conservato una prospettiva religiosa: per molti, se non per la maggioranza, la Torah, la Legge e i Profeti, erano in secondo piano rispetto al Talmud. Per cui il loro, piuttosto che ebraismo biblico, era piuttosto rabbinismo talmudico. Non si dimentichi che alcuni Maestri erano giunti a dire che la Scrittura era “acqua” mentre il Talmud era “vino”. E, dunque, era superiore.
Ma era proprio questa situazione che preoccupava i cattolici. In effetti, il Talmud ha, per un non ebreo, aspetti inquietanti, affermando la superiorità di Israele su ogni altro popolo e annunciando – per un futuro indefinito ma certo – il trionfo mondiale dei figli circoncisi di Abramo, cui tutti gli altri finiranno per versare tributo e prestare omaggio. In quelle due enormi raccolte (che, a quanto ci risulta, non sono mai state tradotte, almeno interamente, in una lingua occidentale: e anche questo ha alimentato molti sospetti, come se ci fossero lì cose da nascondere ai “gentili”) ci sono anche espressioni molto dure contro Gesù, l’impostore, il falso messia, e contro i suoi seguaci, i “galilei“. Non solo il padre Ballerini ma moltissimi altri cristiani (e non solo cattolici: non va dimenticato che la diffidenza per il giudaismo e il desiderio di “difendersene” univa cattolici, protestanti, ortodossi) riportano una serie impressionante di citazioni talmudiche, secondo le quali comportamenti immorali non solo sono permessi ma sono meritori se danneggiano i popoli, soprattutto cristiani, tra i quali gli ebrei sono ospiti. E’ vero, ad esempio, che mentre l’usura è vietata tra israeliti, non solo è permessa ma è raccomandata se è praticata a spese dei “gentili”. Ed è vero anche che la prospettiva talmudica molto insiste sulla pretesa ebraica di costituire una razza superiore, eletta, destinata a sottomettere le altre, a utilizzarle, se necessario a umiliarle.
Da qui, la paura, se non l’angoscia, cristiana di essere minacciati da una “quinta colonna” di nemici che, seppure in minoranza, agivano con lucidità implacabile e con arti spesso ingannevoli se non truffaldine per diventare padroni. Da qui, per dirla con la Civiltà Cattolica, la necessità di distinguere tra “tolleranza” (esplicitamente raccomandata anche dai cattolici e, in sostanza da loro praticata – seppur tra alti e bassi – nei secoli) e “stato civile”, cioè concessione della cittadinanza piena che, a partire dalla Rivoluzione Francese e poi con il liberalismo ottocentesco, aveva fatto degli ebrei cittadini alla pari di ogni altro. Ma in realtà, si osservava, non è così, non può essere così perché proprio gli ebrei non vogliono essere alla pari degli altri. «Non sono una setta ma un popolo, disperso ma non disciolto. Sono una nazione senza terra e senza organizzazione politica propria che, tra le altre nazioni, non cerca una patria ma un rifugio, sfruttando e cercando di spogliare (in attesa di opprimere) i popoli che le concedono ospitale soggiorno. E questo sfruttamento, questa ricerca di potere economico, culturale, politico a spese dei non circoncisi sono tanto più pericolosi in quanto sono considerati un cardine della loro morale, sono raccomandati dal talmudismo che seguono».
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Questa era la diagnosi dei non ebrei. Ad appoggio e conferma di simili timori, tutta una serie di pubblicazioni, di giornali, di leghe, di interventi parlamentari – in Europa come nelle Americhe – portava dati e cifre che colpivano l’opinione pubblica e la rendevano inquieta. Era un fatto, ad esempio che nell’Impero Austro-Ungarico, dov’erano particolarmente numerosi (un milione e mezzo, sui 40 milioni di abitanti della Duplice Monarchia) i senatori ebrei, eletti per censo, rappresentavano oltre un terzo dell’assemblea, in grado di dominarla grazie alla loro compattezza “di stirpe”. Una percentuale sorprendente; ma ancor più lo era quella della Francia dove, verso le fine dell’Ottocento, gli ebrei erano ancora pochi, circa 80.000, ed erano quasi tutti di immigrazione recente, provenendo dalla Germania, dalla Russia, dalla Polonia. I re di Francia, in effetti, più volte li avevano banditi, a differenza del papa che, ad Avignone, non li aveva mai cacciati. Ma l’immigrazione cresceva di giorno in giorno e avrebbe portato presto gli israeliti a raggiungere, in Francia, il mezzo milione. Comunque, quando ancora erano 80.000, tra senatori e deputati superavano i 20. Da qui il commento della Civiltà Cattolica: «Se i cristiani vi fossero rappresentati con simile percentuale, il Parlamento francese dovrebbe contare non meno di 40.000 membri. L’Italia, che conta 30 milioni di abitanti, invece di mezzo ebreo a rappresentare, in proporzione, i nostri 50.000 giudei ne conta al Parlamento oltre una dozzina e una regione come il Veneto è rappresentata da deputati e senatori tutti israeliti, tranne uno». Era in corso poi la scalata per il controllo e l’indirizzo dell’alta cultura, attraverso le cattedre universitarie. Un dato sorprendente è che nell’Italia del 1885, sullo scarno complesso della popolazione universitaria, ben un quarto degli iscritti agli atenei era costituito da figli di ebrei.
Ma al di là della scalata politica, in grado di condizionare l’attività dei governi, preoccupava ed indignava la ricchezza, ogni giorno crescente. Si portavano, anche qui, molte cifre: metà dei banchieri di Parigi, piazza finanziaria allora decisiva per l’economia europea, era ebraica e ancor più avveniva a Londra, ad Amsterdam, a New York. Anche la proprietà immobiliare vedeva una preminenza che in alcuni Paesi diveniva schiacciante: un quarto del territorio ungherese e addirittura l’ottanta per cento di quello della Galizia apparteneva ad israeliti. Cifre di questo tipo erano quasi infinite ed erano motivo non solo di paura ma anche si sdegno in quanto sia l’elite che il popolo erano convinti che tanta ricchezza, ogni giorno crescente, non fosse dovuta ad una capacità “pulita” ma all’abilità di chi era maestro in truffe, in raggiri e, soprattutto, in usura che strangolava i cristiani. I quali non dimenticavano che, appena la Rivoluzione aveva permesso loro di muoversi con libertà, gli ebrei avevano messo insieme di colpo grandi ricchezze comprando a prezzo spesso vile i beni sequestrati alla Chiesa. A proposito dei quali il padre Ballerini faceva un confronto. Ricordava, cioè, che quando, a partire dal 1789, quei beni furono “nazionalizzati” senza alcun indennizzo e venduti, il loro valore fu stimato in quattro miliardi di franchi. Poiché i preti e i religiosi erano allora, in Francia, 130.000, a ciascuno di quegli ecclesiastici toccava un capitale di 30.000 franchi, cioè una rendita annuale di 1500 franchi. Rendita modesta, soprattutto se si teneva conto che su quei beni non vivevano soltanto i religiosi ma anche una gran folla di laici e che la Chiesa con essi faceva grandi elemosine, manteneva una serie imponente di opere sociali, dalle scuole agli ospedali, aveva costruito, costruiva e curava la maggior parte del patrimonio artistico della Nazione. Eppure, quella ricchezza fu giudicata inaccettabile, scandalosa e fu venduta ai migliori offerenti: tra i quali, appunto, molti israeliti. Ebbene, cent’anni dopo la Grande Révolution – seguiamo sempre la Civiltà Cattolica – lo Stato stesso, repubblicano e filosemita, calcolava che la sola famiglia dei banchieri Rotschild possedesse 4 miliardi, cioè l’equivalente di tutta la ricchezza della Chiesa dell’Ancien Régime e che agli 80.000 ebrei, in maggioranza di origine straniera, facessero capo ben 90 miliardi, non certo frutto di libere elemosine bensì accumulati (l’opinione pubblica ne era sicura) con mezzi disonesti, come sembravano dimostrare anche gli scandali finanziari, tra cui quello del canale di Panama – in Italia, quello della Banca Romana e della speculazione edilizia a Roma – che avevano rovinato i risparmiatori.
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Va detto che i non pochi ebrei passati al cristianesimo e che spesso, nel cattolicesimo, erano divenuti sacerdoti assai attivi e stimati (i fratelli Ratisbonne e i fratelli Lémann in Francia, Edgardo Mortara in Italia, e tanti altri) confermavano ciò di cui i battezzati erano convinti. Confermavano, cioè, che – approfittando della eguaglianza concessa dal liberalismo e poggiando sulla solidarietà che li univa in tutto il mondo – i loro ex-correligionari erano protesi alla conquista del mondo ed erano animati da un desiderio di rivalsa contro il cristianesimo. Confermavano, poi, che c’erano stretti legami tra massoneria e comunità israelitiche: queste, anzi, non fornivano solo la “truppa” ma, soprattutto, le menti direttive, spesso celate e in ogni caso potentissime, del movimento di quei Liberi Muratori che erano allora impegnati in una lotta mortale contro la Chiesa cattolica. Ernesto Nathan (ebreo inglese e, secondo la voce comune, figlio naturale di Mazzini) era in Italia il Gran Maestro della Massoneria e quando, all’inizio del ventesimo secolo, fu per sei anni sindaco di Roma fece davvero una politica provocatoria nei confronti dei cattolici, confermandoli nel legame strettissimo tra Loggia e Sinagoga. Impressionava, poi, la presenza ebraica in un altro nemico implacabile della fede, il socialismo. Ed è noto come la presenza ebraica sarà rilevante anche nella Nomenklatura che portò Lenin al potere nel 1917.
Insomma, è in questo clima che i cattolici rifiutavano per gli israeliti (lo abbiamo visto il mese scorso), la confisca dei beni o l’espulsione ma chiedevano – parole testuali di padre Ballerini – di «accordare il soggiorno degli ebrei col diritto dei cristiani, regolandolo con leggi tali che al tempo stesso impediscano agli ebrei di offendere il bene dei cristiani ed ai cristiani di offendere quello degli ebrei». E ricordavano che «le leggi di separazione di un tempo erano non meno a difesa dei giudei che a tutela dei cristiani, impedendo ogni mutua offesa o violazione di diritto da una parte e dall’altra». Non, dunque, cittadini a pieno titolo bensì ospiti verso i quali esercitare con scrupolo la carità e la giustizia cristiane (su questo la Civiltà Cattolica insiste a ogni passo) ma al contempo il realismo, dunque la prudenza, di chi è consapevole che quegli ospiti vorrebbero, e potrebbero, trasformarsi in padroni. Se questo non fosse avvenuto, abbiamo visto quali terribili conseguenze erano preannunciate per il XX secolo: e va detto che, purtroppo, quei vecchi cattolici furono buoni profeti perché il «terribile abisso» preconizzato si spalancò davvero e andò al di là perfino dei loro timori.
«Davanti al nazismo ci fu, da parte della Chiesa cattolica condanna severa dell’antisemitismo (parola per indicare un’ideologia anticristiana, non a caso sconosciuta al vocabolario sino al XIX secolo), ci fu un deciso rifiuto del razzismo in senso biologico, ci fu l’orrore per ogni violenza e ingiustizia».
IL TIMONE – N. 30 – ANNO VI – Febbraio 2004 – pag. 64 – 66