L’impietosa analisi del Censis mostra un Paese fragile, privo di riferimenti etici e religiosi, succube dei mass media
Alla vigilia dei 150 anni dall’Unità, si lamenta il venir meno dell’«eredità risorgimentale» e del «laico primato dello Stato». In realtà, la società ha perso ogni riferimento trascendente e ha come orizzonte solo un benessere effimero
L’Italia è fragile, delusa, senza vigore e senza spessore. Priva di chiari punti di riferimento morali (e più in generale normativi), non è nemmeno quasi più «capace di desiderio ».
Questa è l’impietosa analisi che emerge dal 44° Rapporto annuale del Censis, reso noto a fine 2010, sulla situazione sociale del Paese. Il Censis (Centro studi investimenti sociali), fondato nel 1964, elabora annualmente dal 1967 una “fotografia” che è il più completo strumento di interpretazione della realtà italiana. Più precisamente, dalle Considerazioni generali del Rapporto emerge un dato che fa riflettere: è vero che abbiamo resistito ai mesi più drammatici della grave crisi economica mondiale, seppure con una «evidente fatica del vivere e dolorose emarginazioni occupazionali », ma sorge il dubbio che, anche se a breve dovesse ripartire la marcia dello sviluppo, non avremmo la forza necessaria a far fronte alle sfide che ci attendono. E questo a causa di «evidenti manifestazioni di fragilità sia personali che di massa», ovvero «comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, passivamente adattativi, prigionieri delle influenze mediatiche», cioè della rappresentazione della realtà confezionata dai mezzi di comunicazione. In definitiva, siamo «condannati» al presente, vissuto con superficialità, senza profondità di memoria e senza futuro.
Il primato del superfluo
Non riusciamo più, continua il Rapporto del Censis, a individuare quello che definisce «un dispositivo di fondo (centrale o periferico, morale o giuridico)», capace di disciplinare comportamenti, atteggiamenti, valori. Qual è la conseguenza? Si afferma sempre più una «diffusa e inquietante sregolazione pulsionale» (cioè l’affidarsi in prevalenza agli istinti), con comportamenti degli individui segnati da un «egoismo autoreferenziale e narcisistico» (mancanza di generosità, di apertura agli altri). Egoismo che sfocia in episodi di violenza familiare, nel bullismo gratuito, nel gusto apatico di compiere delitti comuni, nella tendenza a facili godimenti sessuali, nella ricerca di un eccesso di stimolazione esterna che supplisca al vuoto interiore del soggetto, nel ricambio febbrile degli oggetti da acquisire e godere, nella ricerca demenziale di esperienze che sfidano la morte. Altra conseguenza: ogni giorno che passa il desiderio – inteso come spinta positiva ad andare avanti, a progettare – diventa esangue, indebolito dall’appagamento derivante dalla soddisfazione di desideri covati per decenni (dalla casa di proprietà alle vacanze), o indebolito dal primato dell’offerta di oggetti in realtà mai desiderati (con bambini obbligati a godere giocattoli mai chiesti e adulti al sesto tipo di telefono cellulare).
Il venir meno di ideali autentici, di modelli credibili, di solide figure di riferimento (prevalgono i falsi e inconsistenti idoli televisivi e del successo facile) toglie ogni autorevolezza ai richiami alla «legge» (che sia quella del padre, del dettato religioso o della stessa coscienza); richiami che non sono più compresi, forse neppure percepiti: «Si vive senza norma». Anzi, quasi senza «individuabili confini della normalità». Per cui «tutto nella mente dei singoli è aleatorio vagabondaggio, non capace di riferirsi ad un solido basamento».
I «valori risorgimentali»
Lo stesso Rapporto cerca di dare una possibile spiegazione e di offrire soluzioni. Ma la prima appare largamente insufficiente e fuorviante, le seconde sono solo un palliativo.
La spiegazione: per il Censis «si sono appiattiti i nostri riferimenti alti e nobili». Di che si tratta? Ovvio. E politicamente correttissimo! Sono venuti meno «l’eredità risorgimentale, il laico primato dello Stato, la cultura del riformismo, la fede in uno sviluppo continuato e progressivo». Che sono stati sostituiti «dalla delusione per gli esiti del primato del mercato, della verticalizzazione e personalizzazione del potere, del decisionismo di chi governa». In altri termini, se la società italiana è priva di nerbo e di tensioni etiche è perché non è sufficientemente intrisa di valori risorgimentali (quali?), di laicità, di progressismo. La colpa è naturalmente del capitalismo e… di Berlusconi (chi altri, se non lui, ha verticalizzato e personalizzato il potere?).
Quali sono allora le soluzioni per ritrovare vigore e morale? Semplice: «Tornare a desiderare è la virtù civile necessaria per riattivare la dinamica di una società troppo appagata e appiattita».
Ma desiderare che cosa? Gli estensori del Rapporto elencano le situazioni in cui si possono intravedere «germi di desiderio»: tra queste, la crescita di comportamenti «apolidi» legati al primato della competitività internazionale (gli imprenditori e i giovani che lavorano e studiano all’estero), il lento formarsi di un tessuto federalista e la propensione a fare comunità in luoghi a misura d’uomo (borghi, paesi o piccole città). Cioè, se capiamo bene, basta farsi mandare per lavoro a Londra o a Parigi, dare ragione a Bossi e andare a vivere a Bassano del Grappa o a Forlì per ribaltare la situazione e star meglio? Sinceramente, è un po’ poco.
Il «vuoto interiore»
Non ci siamo. Proviamo invece a mettere a fuoco due passaggi illuminanti, contenuti nello stesso Rapporto del Censis, che ci aiutano ad avvicinarci di più alla verità.
Il Censis infatti parla di «vuoto interiore» e del rifiuto crescente a seguire un «dettato religioso» o anche solo la propria coscienza. Ma a questi cenni non segue un approfondimento adeguato. Che consiste innanzitutto nel riconoscere che siamo di fronte a una società ormai incapace di usare la ragione, di inserire i fatti nel loro contesto, di dare il giusto nome alle cose. Per questo è «appagata» ma anche «appiattita »: sembra una contraddizione, in realtà descrive l’assoluta orizzontalità del vivere, l’accontentarsi di un puro benessere materiale – quando c’è –, lo smarrimento, se non l’indifferenza, di fronte al dolore e alla morte, la negazione di una dimensione soprannaturale e di un destino buono per tutti.
È il pieno avverarsi della profezia di Charles Peguy. Più di un secolo fa, nel 1909, in Véronique. Dialogo della storia e dell’anima carnale lo scrittore francese descriveva un fenomeno che non era mai accaduto nella storia: per la prima volta, dopo Cristo, c’era un mondo senza Cristo. «Un mondo prospero, senza Gesù, tutta una società prospera, senza Gesù… un mondo, una società prosperi, incristiani, dopo Gesù». Vi erano stati una società e un mondo senza Gesù, prima di Gesù. Ora invece c’erano una società e un mondo senza Gesù, dopo Gesù. A più di cento anni di distanza, quella profezia è sempre più vera; con la differenza che la prosperità comincia a scricchiolare.
Lo stesso papa Ratzinger ha affermato che l’uomo di oggi è uno per cui il cristianesimo «è un passato che non lo riguarda». Non un passato da rinnegare, non un passato da contestare. Un passato che non lo riguarda. Né da criticare, né da odiare. Non lo riguarda e basta.
IL TIMONE N. 99 – ANNO XIII – Gennaio 2011 – pag. 12 – 13
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