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13.12.2024

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Charles Peguy, o la speranza della poesia
31 Gennaio 2014

Charles Peguy, o la speranza della poesia

 

 

Il Novecento in Europa vide, al fianco del progresso materiale e dell’abbondanza di beni di consumo, l’avanzata di una nuova povertà: l’affievolirsi della fede cristiana, col conseguente venir meno del corteggio di virtù che per natura s’accompagnano alla vita di grazia.
È sembrato allora che la poesia, come arte e artigianato squisitamente umano, dovesse essere separata una volta per tutte dalle sue fonti originarie, dalla contemplazione della realtà delle cose, dalla narrazione di fatti umili o eroici, dal canto del destino dell’anima; è parso che dopo l’epoca delle Rivoluzioni non ci fosse più spazio per il senso religioso, per l’amore semplice, per lo splendore della verità. Mentre sradicamento e indifferenza religiosa avanzavano baldanzosamente alla conquista delle coscienze, nella Francia repubblicana e laicista di fine Ottocento, venne alla luce a Orléans, figlio di un falegname e di una impagliatrice di sedie, colui che sarà il poeta del desiderio e della speranza: Charles Péguy.
“Un bambino cristiano” scrisse “non è altro che un bambino al quale migliaia di volte sia stata presentata dinanzi agli occhi l’infanzia di Gesù”. Ma già le classi agiate o borghesi, nella maggioranza dei casi, cominciavano a trascurare quell’azione piena di carità che si chiama evangelizzazione; e la miseria conquistò gli Stati progrediti, rivestita di altri fuorvianti nomi. Forse per questo Péguy, giovane studioso che prende tutto sul serio, si avvicinò all’ideologia politica del socialismo: sentiva il bisogno di una salvezza reale, materiale, temporale: in una parola, un riscatto per gli uomini, qui e ora. Mentre il corso dei suoi studi avanza irregolare, a diciassette anni con noncuranza abbandona le pratiche religiose; dopo la scuola superiore intraprende gli studi universitari per abbracciare presto l’impegno culturale pratico: nel gennaio del 1900 fonda, assieme a compagni di militanza, la rivista Cahiers de la Quinzaine, periodico che uscirà tra vicissitudini e precarietà finanziarie, sulle cui pagine saranno editi gli scritti più intensi di un’intera stagione filosofica francese, riaperta recentemente per merito di studiosi del calibro di von Balthasar e Finkielkraut (si veda Ciò che conta è lo stupore San Paolo, 2001).

È poeta, cioè agisce e soffre
L’uomo Péguy fa ingresso nella vita in modo comune: sposa la sorella di un amico precocemente scomparso, lavora, ha famiglia e figli. I tempi però sono durissimi, dentro e fuori casa, per cui occorre faticare tutti i giorni. Nel 1908 una malattia lo costringe a letto per settimane; la prostrazione è forte: eppure, proprio i momenti di debolezza possono tramutarsi in rinnovamento, in nuovi inizi di vita. L’amico Lotte, giunto al capezzale, lo descrive con sincerità: “è spossato.
Parla del suo sconforto, della sua fame di riposo; sogna una piccola classe in qualche liceo di provincia, dove insegnare filosofia, per esprimere quel che ha dentro senza traversie… ad un certo momento si alza sul gomito, gli occhi pieni di lacrime: non ti avevo detto tutto, ho ritrovato la fede… sono cattolico”.
La conversione tuttavia non è rimpianto: Péguy riscrive il poema su Giovanna d’Arco senza cancellarne un verso, soltanto ampliandolo con un respiro nuovo. L’incontro con Cristo è motivo di espansione, non di ritrattazione. Per giunta, com’è ovvio, i problemi non cessano di presentarsi: figli che s’ammalano, incomprensioni domestiche, tentazioni; c’è persino chi gli suggerisce di separarsi dalla moglie (non credente) sciogliendo il matrimonio civile.
Tuttavia l’ispirazione lo sostiene e nel 1909 gli detta Véronique. Dialogo della storia e dell’anima carnale (Piemme, 2002), opera rimasta incompiuta e pubblicata postuma quasi mezzo secolo dopo; in essa, l’autore ritrae il dialogo tra Clio, la musa della storia, e l’anima “carnale” dell’uomo, raffigurando l’ampiezza della scristianizzazione. Le dimensioni sono impressionanti, perché si tratta della “rinuncia di tutto il mondo a tutto il cristianesimo”; ben altro rispetto alle rassicuranti omelie del clero del tempo: oltre alla sofferenza per “il dolore di vedere mondi interi, umanità intere vivere e prosperare dopo Gesù. Senza Gesù”, è avversato dagli intellettuali cattolici moderni (Maritain su tutti).

È poeta, cioè padre e pellegrino

Che cosa era dunque successo? Una congerie di fatti, l’intreccio della storia degli uomini con il progetto divino: Péguy sostiene che sia stato commesso un “peccato di mistica” che nega “il meccanismo stesso del cristianesimo” e cioè nega che la grazia di Dio possa incontrare e commuovere il cuore dell’uomo essendo nella carne, nella condizione umana, nello spazio e nel tempo.
Risalgono ad allora le grandi pagine sulla condizione esistenziale dell’uomo di trent’anni, o quei capitoli mirabili sul senso del presente, in cui scopriamo che “c’è un solo avventuriero al mondo: è il padre di famiglia”, colui che si espone col suo corpo, col corpo dei suoi congiunti e corre il rischio più grande, che subisce il tacito disprezzo della società disimpegnata. Frattanto Péguy scrive le sue cose migliori, i Misteri (1910-12) e gli Arazzi (1912-13), tra i quali spicca Il portico del mistero della seconda virtù, poema dedicato alla più giovane, alla bambina, per così dire, tra le virtù teologali: la Speranza, senza la quale il mondo sarebbe un cimitero privo di primavera e di gioia.
Un poeta dunque da leggersi mentre si cammina, magari come lui stesso faceva recandosi in pellegrinaggio sotto il peso dei propri peccati, dei pentimenti, dei proponimenti.
Preziosa è di Péguy l’antologia intitolata Lui è qui (Rizzoli,1997), nella quale leggiamo intuizioni feconde e precorritrici circa il “lavoro ben fatto”, il “lavorare è pregare”, sul mondo moderno “che fa il furbo”, sul potere del denaro. La vita di Péguy fu breve. Di un’anima pagana, diceva, si può fare un’anima cristiana: ma con chi ha abbandonato Cristo, che si può fare? I non-più-cristiani “perdono di vista la precarietà, ossia la condizione più profonda dell’uomo; non tengono presente che bisogna sempre ricominciare”. Le parodie del cristianesimo, che egli imputava soprattutto al clero, impedivano a un numero sempre crescente di persone un vero contatto con la realtà del destino. La novità però c’è: il cuore può cambiare, può accadere di nuovo lo stupore dell’inizio. In questo germoglia la poesia di Péguy. Sulla percezione che il Signore è vivo oggi, come allora “quando venne e non incriminò, non accusò. Salvò. Non incriminò il mondo. Salvò il mondo.
Eppure c’erano i mali del tempo. Del suo tempo. Arrivava il mondo moderno. E lui tagliò corto. In modo molto semplice. Facendo il cristianesimo” .
Nel 1914 Péguy, a quarantun anni, fu richiamato nell’esercito. Partì per il fronte, la Grande Guerra era scoppiata; un giorno di settembre, trascorse l’intero pomeriggio a raccogliere fiori di campo per offrirli a una Madonnina dipinta presso un cascinale. La mattina seguente fu ferito mortalmente da un proiettile.

RICORDA
“Quando un uomo può compiere la più alta azione del mondo senza essere stato immerso nella grazia, quest’uomo è uno stoico, non è un cristiano. […]. Non si è cristiani perché si è ad un certo livello, morale, intellettuale o anche spirituale. Si è cristiani perché si appartiene ad una certa razza ascendente, ad una certa razza mistica, ad una certa razza spirituale e carnale, temporale ed eterna, ad un certo sangue”.
(tratto da Charles Peguy, “Un nouveau théologien”).

 



IL TIMONE N. 25 – ANNO V – Maggio/Giugno 2003 – pag. 46 – 47

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