È la domanda che il Papa ha posto ai parlamentari tedeschi nello scorso settembre. E come si fa a perseguirla? La centralità del diritto naturale, l’errore del positivismo e il contributo possibile dei cattolici
Il discorso di papa Benedetto XVI al Parlamento federale tedesco durante il viaggio apostolico in Germania del recente mese di settembre è uno di quelli destinato a “segnare” il pontificato, sia per la profondità sia perché ha toccato alcuni aspetti fondamentali relativi al tema dello Stato e della politica. Molti lo hanno commentato “a caldo”, ma ancora a distanza di settimane rimane importante rileggerne alcuni passaggi, proprio perché evocano alcuni aspetti della dottrina sociale della Chiesa che rimarranno nel tempo, in particolare il rapporto fra la società e lo Stato nazionale sviluppatosi nel mondo moderno dopo le “guerre di religione” nei secoli XVI e XVII. È un tema importante e delicato che tocca tanti problemi di coscienza, come quello relativo al comportamento da tenere verso un potere ingiusto, una legge iniqua, o quale deve essere il giusto contributo del cittadino al bene comune, sia attraverso la partecipazione alla vita politica, sia attraverso il pagamento delle imposte.
La dottrina e la storia
Sono temi che la dottrina sociale della Chiesa ha affrontato nel corso della storia moderna, quando appunto lo Stato ha cominciato a essere chiamato così e a dilatare la propria influenza sulla società in modi sconosciuti al Medioevo e all’antichità. È molto importante infatti collocare i problemi relativi al rapporto fra Stato e società all’interno della storia, perché non esiste una soluzione teorica comunque valida a problemi che si manifestano storicamente in modo sempre diverso, ma esistono principi fondamentali sempre veri che devono “incarnarsi” in situazioni storiche diverse.
Per fare questo sono necessari alcuni prerequisiti, che Benedetto XVI afferma con forza. Il primo potrebbe apparire di cornice, ma è invece centrale. Riguarda l’atteggiamento di fondo dell’uomo politico, cioè di colui che dovrà prendere le decisioni riguardanti il rapporto fra Stato e società.
Il Pontefice ricorda l’esempio del re Salomone, che a Dio non chiese successo, onori o potere, ma la sapienza, cioè la capacità di prendere le decisioni politiche giuste per il popolo che gli era stato affidato, sapienza espressa nella richiesta di avere un «cuore docile» (1 Re 3,9).
Il rilievo è molto importante: per quanto riguarda la politica, non esistono soluzioni che possano prescindere dalla prudenza dell’uomo politico, cioè dalla sua capacità di scegliere i mezzi adeguati a raggiungere il fine, cioè il bene comune.
Che cos’è la giustizia?
Ma c’è un altro problema, che segue immediatamente: che cosa è giusto? Non basta, risponde il Papa, invocare il principio della maggioranza, perché non è il numero a stabilire la verità e la giustizia. Contrariamente a quanto avveniva prima di Cristo, oppure nell’islam, il cristianesimo «non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato », ma ha rimandato alla natura e alla ragione, ossia a qualcosa che ogni uomo può riconoscere e possiede. Qui si fonda la cultura giuridica occidentale, nata prima dell’Incarnazione, che i Padri della Chiesa, greci e latini, hanno custodito e sviluppato e che è pervenuta fino ai nostri giorni.
Ma negli ultimi cinquant’anni è successo qualcosa di grave, scrive il Papa, «un drammatico cambiamento della situazione». Se fino all’Illuminismo, alla Seconda guerra mondiale e alla ricostruzione successiva alla tragedia del conflitto, i due concetti fondamentali di natura e coscienza non erano stati messi in discussione a livello legislativo, sostanzialmente perché permaneva un senso comune radicato nella popolazione, oggi il diritto naturale viene considerato un aspetto della dottrina cattolica un po’ singolare e al suo posto domina l’egemonia culturale del concetto positivista di natura e di ragione, per cui non esiste qualcosa di dato, la natura, che la ragione può riconoscere attraverso la coscienza. Il positivismo dominante, di cui il Papa ricorda la figura di Hans Kelsen (1881-1973), il principale teorico della separazione fra diritto e natura, esclude la possibilità che la «ragione oggettiva che si manifesta nella natura» possa presupporre un Creatore, un Creator Spiritus. Ma è veramente cosa vana riflettere su questo punto, si chiede Benedetto XVI?
Il compito dei cattolici
Che cosa fare si chiede il Papa, senza rinunciare a quanto di buono ci ha portato il positivismo? Benedetto XVI si appella al «patrimonio culturale dell’Europa», nato dall’incontro fra Atene, Gerusalemme e Roma, e alla sua idea che la trascendenza di Dio fonda i diritti e l’eguaglianza degli uomini, perché pone qualcosa che l’uomo non ha creato ma trova, e deve scegliere se coltivare o distruggere. A questo punto del suo discorso, il Papa ha fatto cenno al movimento ecologista che ha messo in luce quanto non funzionava nella modernità a proposito del rapporto fra l’uomo e la natura. Pur avendo esplicitamente ricordato non essere sua intenzione fare propaganda per un partito politico, ma semplicemente ricordare un esempio fra i tanti possibili, forse soltanto questo punto rimarrà nella mente dei molti che hanno letto o ascoltato distrattamente i commenti della stampa, spesso molto superficiali, al discorso del Papa. Ma nel fare questo esempio, il Papa aggiungeva che accanto all’ecologia, la cui importanza è riconosciuta da tutti, o quasi, i moderni, vi è anche una «ecologia dell’uomo». L’uomo riceve una natura e deve rispettarla se vuole realizzarsi come persona: perché «non è soltanto una libertà che si crea da sé […] ma è anche natura, e la sua volontà è giusta quando egli rispetta la natura, la ascolta e quando accetta se stesso per quello che è…».
Il problema dello Stato moderno
Fin qui il Papa, con il grande affresco sulla politica al Parlamento tedesco. Ma la politica rimanda allo Stato, che non è qualcosa di dato in natura, come invece è la società. E allora il grande affresco del Papa introduce, indirettamente ma realmente, al grande quesito sullo Stato moderno, emerso ancora recentemente di fronte alla crisi economica che colpisce il mondo occidentale: lo Stato è la soluzione o il problema?
Anche qui non esiste una risposta valida per tutte le stagioni e bisogna fare affidamento a quella sapienza, o «cuore docile», che Salomone chiese al Signore. La Chiesa suggerì l’intervento dello Stato di fronte ai problemi creati dalla Rivoluzione industriale verso la fine del XIX secolo, con l’enciclica Rerum novarum (1891), così quarant’anni dopo elaborò il principio di sussidiarietà per arginare il dilatarsi dello Stato che stava diventando totalitario, con l’enciclica Quadragesimo anno (1931). Nonostante il crollo delle ideologie e dei sistemi totalitari, lo Stato non ha cessato di dilatare la propria invadenza sulla società, frenato solo in parte dal ritorno del principio di sussidiarietà negli anni ’80 del secolo scorso. E ancora oggi, quando avremmo tanto bisogno dell’autorevolezza dello Stato nei campi di sua competenza, a cominciare dalla sicurezza dei cittadini, ci troviamo, invece, in particolare in Italia, ancora avvolti in desueti discorsi sul rapporto Stato-cittadino, dove quest’ultimo viene spesso presentato come un “evasore di tasse”, un insofferente allo Stato, mentre non viene quasi mai fatta notare l’enorme estensione di potere dello Stato in campi che non sono di sua competenza, come la scuola, l’informazione, l’economia. Sempre Benedetto XVI, ancora nel viaggio nella sua patria, ha lanciato un appello per tenere sempre insieme libertà e solidarietà, ricordando che «secondo il principio di sussidiarietà, la società deve dare spazio sufficiente alle strutture più piccole per il loro sviluppo e, allo stesso tempo, deve essere di supporto, in modo che esse, un giorno, possano reggersi anche da sole» (discorso al castello di Bellevue, a Berlino, 22 settembre 2011).Chissà se gli uomini che reggono le sorti degli Stati, in particolare quelli che gestiscono i diversi poteri in Italia, sapranno riconoscere e tentare di rimediare al peccato d’origine del nostro Stato nazionale, nato proprio 150 anni fa sul modello del centralismo francese. Sarebbe un modo per restituire libertà concrete ai corpi sociali, per fare rinascere quel senso di responsabilità che oggi si trova difficilmente fra i giovani, e infine per ritornare a dare un traguardo, uno scopo alla povera politica italiana.
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