Non solo quasi tutte le più grandi intelligenze umane hanno coltivato la fede, ma l’uomo vive continuamente di fede, che è un atto connaturale all’uomo. E solo se ci si aggrappa con fede al lignum crucis è possibile attraversare il mare della vita (S. Agostino).
Non è infrequente rilevare delle manifestazioni di disprezzo nei confronti dei credenti, che vengono considerati ingenui e infantili, per non aver saputo accedere ad un atteggiamento maturo e razionale, che tiene in considerazione solo ciò che è direttamente sperimentabile. Per questo, se il credente viene pur tollerato, come per una sorta di benevolenza, gli si impone di circoscrivere la propria fede ad un ambito strettamente privato. Chi ci segue sulle colonne di questa rivista sa quante volte abbiamo rivendicato l’importanza cruciale della ragione, ma in connessione con il dossier sulla religiosità italiana di questo numero del Timone, può essere opportuno una riflessione di antropologia filosofica sulla rilevanza della fede nella vita dell’uomo.
Cominciamo a dire che la stragrande maggioranza degli uomini più intelligenti, di coloro che hanno dato lustro al genere umano, dei filosofi, dei letterati e degli scienziati di tutti i tempi è costituita da credenti (cfr. il dossier del Timone n. 21). Per citare solo i più famosi basterebbe ricordare filosofi come Socrate, Platone, Aristotele, Agostino, Tommaso d’Aquino, Anselmo, Cartesio, Spinoza, Leibniz, Schelling, Hegel, scienziati come Pascal, Mendel, Pasteur, Ampère, Galvani, Galileo, Volta, Faraday, Fermi, Eccles, letterati come Dante, Petrarca, Ungaretti, Dostoevskij, Tolstoy, Goethe, Cervantes, Eliot e tantissimi altri .
Ma, oltre a ciò, dobbiamo notare che la fede è la concessione di fiducia e di credito ad una persona che ci testimonia qualcosa di cui noi non abbiamo fatto esperienza diretta. In questo senso noi facciamo atti di fede non solo quando crediamo in Dio, ma altresì tutte le volte che riteniamo vera una cosa leggendo i giornali, ascoltando la radio, guardando la televisione, leggendo dei libri, parlando con amici, parenti, colleghi, ecc., e di questa cosa non abbiamo fatto esperienza diretta. I latini dicevano che almeno l’identità della madre di una persona è sempre certa (mater semper certa), ma S. Agostino notava che noi non possiamo essere certi dell’identità di nessuno dei nostri genitori, nemmeno di nostra madre: noi non abbiamo sperimentato direttamente la nostra nascita in un modo che ci consenta di ricordare da chi siamo stati generati. Certo, i genitori somigliano ai figli che hanno generato, ma ci sono casi di somiglianza anche tra uomini non consanguinei ed esistono addirittura i sosia, perciò noi dobbiamo creder per fede che i nostri genitori siano quelli autentici. Al giorno d’oggi è possibile sostenere il test del DNA, ma anche in questo caso noi dobbiamo prestare la nostra fiducia ai tecnici del laboratorio che compiono il test, e anche se fossimo noi stessi quei tecnici, dovremmo aver fede negli altri tecnici nostri collaboratori, nel fatto che nessuno in nostra assenza alteri i risultati del test, sostituisca i campioni esaminati, ecc.
Si potrebbero moltiplicare gli esempi a dismisura, ma quello che ci preme sottolineare è che l’uomo fa continuamente atti di fede, perciò qualunque uomo tiene per vere molte più cose con la fede rispetto a quelle che ha sperimentato direttamente. Pertanto, chi disprezza la fede disprezza la condizione umana, cioè disprezza se stesso, perché l’uomo fa appunto ripetutamente atti di fede; anzi, solo l’uomo esercita l’atto di fede, mentre, come dice Hegel, “gli animali non lo fanno […] e perciò non hanno alcuna religione”. Pertanto, come ci informano gli etnologi e gli antropologi, l’uomo ha sviluppato un’intensa attività religiosa sin dalla sua prima comparsa sulla scena del mondo e tutte le tribù e le popolazioni di qualsivoglia livello culturale hanno coltivato qualche forma di attività religiosa. In questo senso si esprime sinteticamente Cicerone: “Tra tante specie nessun animale, al di fuori dell’uomo, ha una notizia qualsiasi della divinità, e non c’è fra gli stessi uomini nessuna gente così selvaggia e feroce, che sebbene ignori come si debba concepire Dio, non si renda conto che bisogna ammetterne l’esistenza”.
Anche la fede in qualcosa di soprannaturale è talmente strutturale (Kant) e connaturale per l’uomo che le culture razionalistiche celano un sottofondo misterico: per esempio, durante l’Illuminismo si diffondono le sette esoteriche, e durante il positivismo si diffonde lo spiritismo (praticato per esempio, dal razionalista Conan Doyle, il creatore di Sherlock Holmes). In tal senso, aveva ragione Chesterton quando diceva che il dramma dell’uomo moderno non è quello di non credere a nulla, bensì di credere a tutto: lo confermano la proliferazione di maghi, ciarlatani, cartomanti e il loro miliardario giro d’affari, alimentato non solo da persone scarsamente istruite, ma anche da manager, capitani d’industria, avvocati, professionisti, ecc.
Similmente Karl Barth affermava che “quando il cielo si svuota di Dio, la terra si riempie di idoli”. Si potrebbe cioè dire che l’uomo contemporaneo crede sì a qualcosa di soprannaturale, ma sovente trascura proprio quell’autocomunicazione di Dio che è la Rivelazione biblica. Eppure, soltanto questa può dargli una risposta definitiva e vera su se stesso, sul senso della vita, sul bene e sul male, sulla sofferenza, sui destini ultimi dell’uomo, una risposta definitiva che l’esperienza e la ragione dell’uomo non possono attingere: “l’ultimo passo della ragione consiste nel riconoscere che c’è un’infinità di cose che la sovrastano” (Pascal), e che sono accessibili solo con la fede nella Rivelazione.
Proprio una simile Rivelazione desiderava il greco Platone, nel IV sec. a.C., quando diceva che circa i destini ultimi dell’uomo si può “accettare tra i ragionamenti umani, quello migliore e meno facile da confutare, e su quello, come su una zattera, affrontare il rischio del mare della vita […]. A meno che non si possa fare il viaggio in modo più sicuro e con minor rischio su una più solida nave, cioè affidandosi ad una divina rivelazione”.
Ebbene, la solida nave a cui anelava Platone, risponde S. Agostino sei secoli più tardi, è costruita col lignum crucis: “nessuno […] può attraversare il mare di questa vita, se non è portato dalla croce di Cristo”.
RICORDA
“Quando il perché delle cose viene indagato con integralità alla ricerca della risposta ultima e più esauriente, allora la ragione tocca il suo vertice e si apre alla religiosità. In effetti, la religiosità rappresenta l’espressione più elevata della persona umana, perché è il culmine della sua natura razionale. Essa sgorga dall’aspirazione profonda dell’uomo alla verità”.
(Giovanni Paolo II, Udienza generale del 19 ottobre 1983).
BIBLIOGRAFIA
Per una trattazione rigorosa ma accessibile:
J. Pieper, Sulla fede, Morcelliana, Brescia 1963.
J. Pieper, Per la filosofia, Ares, Milano 1976, pp. 142-161.
V. Possenti, Filosofia e Rivelazione. Un contributo al dibattito su ragione e fede, Città Nuova, Roma 1999.
Giovanni Paolo II, Fides et Ratio, specialmente pp. 18-24, 35-48.
Per un approfondimento filosofico:
F. Botturi, La ragione credente e i suoi nemici, in Fides et ratio: lettera enciclica di Giovanni Paolo II. Testo e commento teologico-pastorale, a cura di R. Fisichella, San Paolo, Cinisello Balsamo 1999, pp. 207-202.
A. Livi, La ricerca della verità. Dal senso comune alla dialettica, Leonardo da Vinci, Roma 2001, pp. 125-138, 161-199.
A. Livi, Filosofia del senso comune. Logica della scienza & della fede, Ares, Milano 1990, pp. 183-209.
A. Llano, Filosofia della conoscenza, Le Monnier, Firenze 1987, pp. 55-57.
J.J. Sanguineti, Introduzione alla filosofia, Urbaniana University Press, Roma 1992, pp. 141-163.
IL TIMONE – N. 29 – ANNO VI – Gennaio 2004 – pag. 32 – 33