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6.12.2024

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Chiesa e “dialogo missionario”
31 Gennaio 2014

Chiesa e “dialogo missionario”


Sono trascorsi 50 anni dall’enciclica Ecclesiam suam. La prima enciclica di Paolo VI, che ribadiva la fedeltà alla dottrina e la necessità di annunciare Cristo al mondo. Con il dialogo e senza diminuire la verità

Fra pochi giorni entreremo nell’anno in cui ricorre il 50° anniversario della prima enciclica del ven. papa Paolo VI (1963-1978), Ecclesiam suam, la cosiddetta enciclica programmatica del pontificato (6 agosto 1964).
Mi sembra importante ricordarne i contenuti, a cominciare dal fatto che Paolo VI ricorda all’inizio del documento la permanenza pericolosa del «fenomeno modernistico» (n. 28) e verso la fine dell’enciclica ribadisce la condanna dei «sistemi ideologici negatori di Dio e oppressori della Chiesa, sistemi spesso identificati in regimi economici, sociali e politici, e tra questi specialmente il comunismo ateo» (n. 105), senza peraltro dimenticare la sofferenza della «Chiesa del silenzio» (n. 107). Si tratta quindi di un luogo comune affermare che il suo pontificato abbia cessato di condannare il comunismo, di sostenere la “Chiesa del silenzio” nei Paesi comunisti e di vigilare sulla presenza di tendenze moderniste all’interno della Chiesa.
Rimane tuttavia il fatto che il Magistero ordinario del Pontefice, e del Concilio Vaticano II che si stava svolgendo quando Paolo VI divenne Papa, volle introdurre un nuovo modo di rapportare la Chiesa con il mondo, secondo un metodo di dialogo così come viene tra l’altro descritto proprio in questa prima enciclica, un “dialogo missionario” che non sconfessava il passato o la dottrina della Chiesa, ma la proponeva in un modo diverso ai contemporanei. Una “riforma nella continuità”, per usare le parole che pronuncerà nel 2005 Benedetto XVI per indicare come si deve intendere il Vaticano II secondo una lettura cattolica, e un atteggiamento costruito intorno a due parole, “dialogo” e “mitezza”, frequentemente usate oggi da papa Francesco. Il tema dell’enciclica è la Chiesa, il suo rapporto con il mondo moderno, quello che ha accolto e poi si è staccato dal cristianesimo e quello, sconfinato, composto dai popoli che ancora non conoscono il Vangelo: «… un mondo che non una, ma cento forme di possibili contatti offre alla Chiesa, aperti e facili alcuni, delicati e complicati altri, ostili e refrattari ad amico colloquio purtroppo oggi moltissimi » (n. 14). Un mondo con cui il Papa vuole dialogare, consapevole delle difficoltà che ciò comporta.

La dottrina sulla Chiesa
Nella sua enciclica Paolo VI concentra l’attenzione soprattutto sul mistero della Chiesa, ripercorrendo in estrema sintesi la storia di come la dottrina sulla Chiesa si sia sviluppata proprio a partire dalla crisi della Riforma protestante e dagli insegnamenti contenuti nel Concilio di Trento, che appunto fu la risposta a quella crisi. Da allora si verificò un enorme sviluppo che culminò nel Concilio Vaticano I, «tanto che, come già fu detto, il Concilio Ecumenico Vaticano II altro non è che una continuazione e un completamento del Vaticano I, precisamente per l’impegno che ad esso viene di riprendere l’esame e la definizione della dottrina sulla Chiesa» (n. 32).

La missione guidata dal Magistero

La Chiesa, ricorda Paolo VI, non vive e non deve vivere separata dal mondo, ma deve stare all’interno di esso, adattandosi alla cultura e al costume del tempo nella misura in cui questo non mette in discussione la propria identità cattolica, ma contemporaneamente deve purificare e santificare quelle forme di pensiero e di costume che il mondo le sottopone (cfr. n. 44). L’indicazione è importante e ci aiuta anche a comprendere il significato del Magistero ordinario, quello con cui quotidianamente il Papa e i vescovi, nelle rispettive diocesi, indicano ai fedeli quando, quanto e come rapportarsi con il mondo nel quale si vive.
Per esempio, Paolo VI mette in guardia dal duplice errore, assai diffuso, di auspicare un ritorno alla Chiesa delle origini, piccola e pura, o di auspicarne una carismatica, che nasce attorno a un’idea particolare (cfr. n. 4).
La Chiesa che si deve amare e servire è quella che esiste nel proprio tempo, attraverso gli uomini che ne incarnano l’autorità, con i loro pregi e i loro difetti, con le loro caratteristiche culturali che possono piacere ad alcuni e non ad altri, ma che sono stati comunque scelti da Dio, nonostante le loro debolezze: «La Chiesa quale è dobbiamo servire ed amare, con senso intelligente della storia, e con umile ricerca della volontà di Dio, che assiste e guida la Chiesa anche quando permette che la debolezza umana ne offuschi alquanto la purezza di linee e la bellezza d’azione. Questa purezza e questa bellezza noi andiamo cercando e vogliamo promuovere» (n. 49).

Non “diminuire la verità”
Paolo VI esprime a questo punto il dovere missionario della Chiesa, che non può limitarsi a conservare quello che ha ricevuto. Il problema è con quale atteggiamento nei confronti degli uomini ai quali si rivolge: «Non si salva il mondo dal di fuori; occorre, come il Verbo di Dio che si è fatto uomo, immedesimarsi, in certa misura, nelle forme di vita di coloro a cui si vuole portare il messaggio di Cristo, occorre condividere, senza porre distanza di privilegi, o diaframma di linguaggio incomprensibile, il costume comune, purché umano ed onesto, quello dei più piccoli specialmente, se si vuole essere ascoltati e compresi» (n. 90).
Naturalmente, l’apostolato è un compito difficile. Solo chi lo pratica veramente sa quanto costi spendersi per aiutare le anime a salvarsi, come ha dimostrato, per esempio, la vita dell’Apostolo delle genti o quella di san Francesco Saverio (1506- 1552), il modello dei missionari. Bisogna credere in ciò che si vuole trasmettere, ma bisogna anche volere il bene di coloro ai quali ci si rivolge, bisogna manifestare loro quella empatia umana senza la quale è difficile, umanamente parlando, stabilire un dialogo che sia missionario: «L’arte dell’apostolato è rischiosa. La sollecitudine di accostare i fratelli non deve tradursi in una attenuazione, in una diminuzione della verità. Il nostro dialogo non può essere una debolezza rispetto all’impegno verso la nostra fede. L’apostolato non può transigere con un compromesso ambiguo rispetto ai principi di pensiero e di azione che devono qualificare la nostra professione cristiana. L’irenismo e il sincretismo sono in fondo forme di scetticismo rispetto alla forza e al contenuto della Parola di Dio, che vogliamo predicare. Solo chi è pienamente fedele alla dottrina di Cristo può essere efficacemente apostolo» (n. 91).

Il rapporto con il mondo

Ma una volta stabilito che si deve essere missionari bisogna anche decidere come rapportarsi con il mondo al quale ci si rivolge. Paolo VI enuncia diverse situazioni e indica quella che come Capo della Chiesa sceglie per il proprio tempo: «Com’è chiaro, i rapporti fra la Chiesa ed il mondo possono assumere molti aspetti e diversi fra loro. Teoricamente parlando, la Chiesa potrebbe prefiggersi di ridurre al minimo tali rapporti, cercando di sequestrare se stessa dal commercio della società profana; come potrebbe proporsi di rilevare i mali che in essa possono riscontrarsi, anatematizzandoli e movendo crociate contro di essi; potrebbe invece tanto avvicinarsi alla società profana da cercare di prendervi influsso preponderante o anche di esercitarvi un dominio teocratico; e così via. Sembra a Noi invece che il rapporto della Chiesa col mondo, senza precludersi altre forme legittime, possa meglio raffigurarsi in un dialogo, e neppure questo in modo univoco, ma adattato all’indole dell’interlocutore e delle circostanze di fatto (altro è infatti il dialogo con un fanciullo ed altro con un adulto; altro con un credente ed altro con un non credente)» (n. 80).
Leggendo queste parole si comprende l’intenzione missionaria di Paolo VI, l’amore per la Chiesa che Dio gli aveva chiesto di guidare e l’idea che aveva di quel “dialogo”, che suscitò incomprensione e confusione perché venne spacciato come una rinuncia all’identità cattolica, mentre nelle indicazioni del Magistero aveva una chiara intenzione missionaria.
Peraltro gli uomini di Chiesa capirono invece molto bene questo spirito, tanto che Giovanni Paolo II, il 7 maggio 2002, si richiamò a questa enciclica per invitare i confratelli delle Antille, che riceveva in visita ad limina, a una nuova apologetica che avesse i tratti caratteristici («chiarezza, mitezza, fiducia e prudenza») indicati da Papa Montini. Queste le parole del prossimo santo Pontefice: «abbiamo bisogno di una nuova apologetica, adatta alle esigenze di oggi, che consideri che il nostro compito non consiste nel conquistare argomenti, ma anime, nell’impegnarci in una specie di lotta spirituale, non in una disputa ideologica, nel difendere e promuovere il Vangelo, non noi stessi. Questa apologetica avrà bisogno di respirare uno spirito di mitezza, quell’umiltà e quella compassione che comprendono le ansie e gli interrogativi delle persone e, al contempo, non cedono a una dimensione sentimentale dell’amore e della compassione di Cristo, separandoli dalla verità. Sappiamo che l’amore di Cristo può fare molte richieste, proprio perché queste non sono legate al sentimentalismo, ma alla verità che sola rende liberi» (cfr Gv 8, 32).

IL TIMONE N. 128 – ANNO XV – Dicembre 2013 – pag. 58 – 59

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