Quest’anno i due film che hanno vinto l’Oscar – Million Dollar Baby come miglior film in assoluto e Mare dentro come miglior film straniero – sono accomunati dal fatto di essere entrambi, il primo in modo sottile ma non meno efficace, il secondo in modo smaccato, ma anche molto astuto, a favore dell’eutanasia. Ancora una volta il cinema si fa portatore di temi che sono nell’aria e di campagne culturali. Zapatero si appoggia a questo film per promuovere l’eutanasia, come si è appoggiato alle reazioni emotive ai film di Almodóvar nei suoi progetti di promozione delle unioni omosessuali.
Entrambi i film sono scritti, girati e recitati assai bene: riescono a convincere e a commuovere lo spettatore, però su una tesi preconfezionata e tutta da discutere.
Nel film spagnolo, il protagonista Ramón Sampedro, paralizzato da quasi trent’anni, rivendica il suo diritto a darsi la morte finché questa sua volontà non viene esaudita.
Quello che rimane non spiegato è da dove viene la così pervicace volontà di morte di Ramón. Da dove viene, per esempio, la sua decisione – mai messa in discussione nel film – di limitarsi a vivere nel proprio letto, quando ci sono persone in condizioni peggiori delle sue, che riescono a muoversi, a svolgere attività lavorative? Ramón, col tipo di lesione che aveva, sarebbe stato per esempio in grado di arrivare, con un po’ di esercizio, a guidare un modello apposito di automobile. Il film invece prende come un dato di fatto sin dall’inizio – senza discuterla, se non in modo del tutto superficiale – la sua volontà di morire, senza sforzarsi di spiegarla: se si fosse fatta questa domanda, il film sarebbe stato molto utile a tutti noi, anche ai malati come Ramón, che invece trovano qui una soluzione bell’e pronta ai loro problemi e ai problemi di chi li assiste: farsi eliminare. Infatti, vari malati hanno preso esempio dal film decidendo di finire la loro vita. E giova ricordare come un caso come quello di Ramón fosse unico proprio per la pervicace volontà di morire: la grandissima maggioranza delle persone nelle sue condizioni si impegnano invece a «risalire», a lavorare, a cercare di avere una vita il più normale possibile.
Varie spie indicano la forte parzialità del film. La prima è non voler dar spazio ai motivi per cui Julia, l’avvocatessa con malattia degenerativa che diventa amica di Ramón e che a un certo punto aveva deciso di morire con lui, cambia idea e sceglie la vita. Capiamo che ha cambiato idea, ma non ci viene detto perché.
La seconda è il modo offensivamente caricaturale in cui viene trattato l’intervento di un sacerdote cattolico che cerca di dissuadere Ramón dai suoi propositi suicidi. Non solo – diversamente da tutti gli altri personaggi – non viene visto con un minimo di partecipazione.
Non solo gli si fa dire una frase mal riuscita e antipatica, ma la scena in cui lui vorrebbe raggiungere Ramón per parlare con lui, ma non riesce a causa della sedia a rotelle troppo ingombrante, è trattata con un’ironia distanziante davvero fastidiosa. L’episodio riprende una relazione che in realtà fu quasi solo epistolare con un sacerdote dell’Opus Dei, don Luis De Moya, paralizzato in modo ancora più grave di Ramón, che pregò per lui e cercò di convincerlo che valeva la pena continuare a vivere. Don Luis, che oggi si muove su una sedia a rotelle e svolge il suo ministero sacerdotale di cappellano universitario con una certa normalità, ha raccontato la sua esperienza in un bel libro (Strada facendo, tr. it. edizioni Cercate; molte informazioni sul caso Sanpedro sono anche sui siti internet:
www.luisdemoya.org e
www.muertedigna.org).
Quanto al film, si potrebbe continuare con altri dettagli per nulla innocenti. Per esempio, il più fiero oppositore all’eutanasia è il fratello di Ramón, che è rappresentato come una persona «antica», retrograda, che non sa dire altro che «Io sono il tuo fratello maggiore » e «Finché ci sono io in questa casa non si uccide nessuno». I membri dell’associazione pro-eutanasia sono invece tutti simpatici, cordiali, affettuosi, equilibrati. L’altra dimensione su cui il film tace è il carico di sofferenze e anche di ostilità e di odio che queste scelte portano con sé. Qualche mese dopo l’uscita del film, Ramona Maneiro (la donna che si è innamorata di Ramón e ha vissuto con lui negli ultimi tempi) ha dichiarato – nel momento in cui il reato veniva prescritto – che è stata lei a versare il cianuro e ad aiutare Ramón a morire. Questa dichiarazione ha portato a una replica piena di ostilità, per non dire di odio, da parte della cognata di Ramón, Manuela, che ha dichiarato senza mezzi termini che Ramona è un’assassina e che, se potesse vederla impiccata, lo farebbe oggi stesso. «Non la perdonerò mai» ha dichiarato ai giornali spagnoli, aggiungendo che questa donna aveva trattato malissimo Ramón, lasciandolo pieno di piaghe, quando a casa sua invece era stato sempre bene. La realtà è quindi ben più complessa e più amara delle immagini idilliache finali del film, con mare e spiaggia su cui si libra l’anima di Ramón.
Un discorso analogo si potrebbe fare per Million Dollar Baby: anche qui la decisione della protagonista – una ragazza forte e determinata – di porre fine alla propria vita appare incoerente con il personaggio ed è per lo meno curioso che a decidere di ucciderla sia il suo allenatore, una sorta di «padre» spirituale caratterizzato come cattolico praticante. Il film fa sì che questo personaggio contrapponga una legge di Dio considerata puramente formale e lontana dalle esigenze reali delle persone con un presunto «amore vero».
La questione dell’eutanasia, quando prende la forma del diritto al suicidio, è una di quelle in cui emerge più chiaramente come la discriminante finale sia fra chi crede che Dio sia un Padre e abbia nelle mani la nostra vita e chi pensa che invece tutto finisca qui.
Ma anche nel trattare le dimensioni solo umane del problema, una maggior completezza e onestà di questi film che hanno – purtroppo, perché sono al servizio di una tesi assai pericolosa – una fattura così ben elaborata, sarebbe stata del tutto auspicabile. Di fatto questi film diventano istigazione al suicidio per chi è malato e – come iniziano a testimoniare alcuni tetraplegici – fanno venire voglia di dire a chi li vede: perché, visto che soffri tanto, non la fai finita?
I due registi, Amenábar e Eastwood, non hanno fatto né a loro né a noi un bel servizio.
DA NON PERDERE
Non è facile trovare uno strumento di orientamento cinematografico che sia chiaramente ispirato a una visione cristiana della vita e che non si accodi alle mode culturali imperanti. Scegliere un film 2005, Ares, curato da Armando Fumagalli e Luisa Cotta Ramosino, segue le tracce del volume dallo stesso titolo, uscito nel 2004 con ottima accoglienza di pubblico. È quindi uno strumento ideale sia per genitori che vogliono scegliere un film da godere in famiglia, sia per chi organizza cineforum, soprattutto in contesti educativi. I lettori potranno trovare uno sguardo acuto, intelligente e originale per comprendere a fondo più di 150 film analizzati, scelti fra quelli usciti nelle sale da giugno 2004 a maggio 2005. Le recensioni, firmate da giovani professionisti dei media, privilegiano la componente narrativa: il tipo di storia raccontata, i personaggi e i valori di cui si fa portatrice, con una valutazione che tiene in primo piano le componenti etico-antropologiche del film. Per una consultazione più rapida e immediata a ogni film è stato attribuito un voto, che non è per cinefili, ma per un pubblico di persone «normali», ed è il frutto di un giudizio complessivo che tiene conto dei pregi estetici, ma soprattutto contenutistici.
Bibliografia