Nella legge dell’Incarnazione, la Confessione è il momento più umanizzante. Sperimentiamo la vicinanza dolcissima del Signore. Che, perdonandoci, mette nell’animo tenerezza, forza e fiducia. Così l’esistenza diventa una vera gioia, anche nel dolore. Intervista al vescovo Maggiolini.
All’atto di «andare in pensione» per limiti di età, alla fine dell’anno scorso, monsignor Alessandro Maggiolini ha chiesto un privilegio che gli fa onore: disporre di un confessionale nel Duomo di Como, la sua diocesi, per esercitare il ministero della penitenza. Un bel gesto, di significato spirituale profondo, per un vescovo che è stato l’unico redattore italiano del Catechismo della Chiesa universale e che con i molti suoi libri e scritti giornalistici ha influito a lungo e profondamente sul pensiero e sulla vita della cristianità del nostro Paese. Ma – invece di una cattedra da «intellettuale» – monsignor Maggiolini ha chiesto un confessionale.
Eppure sono anni ormai che lo si dice: la Confessione è in crisi. E sui motivi, e sui rimedi da adottare, i pareri sono molto diversi. Lei che ne pensa, degli uni e degli altri?
«Anzitutto io sarei cauto nell’affermare che la Confessione è in crisi. È in crisi una confessione fatta meccanicamente che non pesca nel fondo del cuore e non raggiunge il fondo del cuore per cambiarlo. Quante volte abbiamo visto gente che si avvicinava al confessionale e se ne staccava quasi subito! Ha fatto in tempo, questa gente, a esprimere con pacatezza e fiducia nel Signore la propria situazione? Non è capitato, invece, che il penitente avesse già una sorta di lista di peccati stabilita magari da anni, sempre più abbreviata, e recitata come se si trattasse di una formula vuota? Quando il cuore è lontano, anche il Signore non si avvicina: o meglio si avvicina, ma trova le porte dell’animo chiuse. E allora è come se si ripetesse in modo anonimo una tiritera perché ad essa risponda il confessore con un’altra tiritera, magari sempre la stessa: “Io ti assolvo…”. Questa formula dovrebbe esprimere la presenza reale di Cristo che ascolta e comunica fiducia e speranza, mentre può essere recitata come una filastrocca per bambini un po’ tonti. Dopo di che, che significato ha che uno si accosti alla confessione? Che frutti ne trae? E, ancor prima, il penitente incontra il Signore a tu per tu, occhi negli occhi, ascoltandone la voce sentendo la sua pace che invade l’animo, oppure si è limitato a fare un gesto rituale senza troppo senso?».
Dunque, se capisco bene, l’attuale «crisi» potrebbe essere addirittura provvidenziale…
«Se è la crisi di questa confessione – che non conserva nulla del sacramento –, sì, è una crisi salutare. Circa i motivi e i rimedi da adottare, i pareri sono molto diversi. Da parte mia vorrei semplicemente richiamare lo schema del perdono: l’accusa, l’ascolto attento – che è fondamentale e non è un giudizio di condanna – e la benedizione del perdono che prende il peccatore e lo ricrea di nuovo. Vorrei dire che il rimedio alla crisi della Confessione è semplicemente la Confessione come il Signore vuole che la si compia. Allora il penitente si sente interpretato nell’intimo dell’animo e si sente colto nel desiderio più profondo di essere liberato dalla schiavitù della colpa. Inizia una esistenza nuova: pulita, osante, intraprendente, lieta».
Anche i preti però avrebbero forse qualcosa da confessare, riguardo al loro atteggiamento di fronte alla penitenza: nella Chiesa in passato si è fatto del terrorismo probabilmente eccessivo sul senso del peccato, oggi invece sembriamo pagare lo scotto opposto. Quali sono gli errori che più allontanano dal confessionale, secondo lei?
«Non c’è dubbio: anche noi preti dobbiamo confessare circa il nostro modo di confessare. Si è fatto del terrorismo eccessivo sul senso del peccato? Forse sì. O forse no: non si è mai confusi e desiderosi di perdono a sufficienza. Mi pare comunque che oggi non stiamo pagando lo scotto opposto a un rigorismo quasi disumano. Stiamo, piuttosto, comprendendo che, nella legge dell’Incarnazione, la Confessione è il momento più umano e più umanizzante. Il Signore non ci ha chiamati e dire le nostre colpe perché ci sentissimo a disagio e avvertissimo una vergogna quasi insormontabile. Il Signore è il vero attore del sacramento. E ha una fiducia più grande della nostra. E ha il cuore più grande del nostro. E desidera perdonarci: non ci butta dietro la misericordia come se fosse una pratica giuridica; ci attende perché possa essere veramente se stesso, cioè il Dio che ridà fiducia per il domani, il Dio che ricrea la persona. Di solito dico ai penitenti che l’assoluzione non è come una passata di cancellino su una lavagna che rimane ancora imbrattata: uno può avere l’intera vita corrotta da rivedere e da farsi perdonare, da quando ha iniziato a capire qualcosa; eppure l’“io ti assolvo” manda via dal confessionale anche i peccatori più induriti con la limpidezza e la gioia di bambini della prima Comunione».
A volte, però, si incontrano all’opposto penitenti feriti dall’eccessiva durezza dei confessori.
«Sì, potrei dire che uno degli errori che più allontanano dal confessionale è l’insensibilità del sacerdote che concede il perdono ed è più preoccupato del “peso” di ogni peccato e del “numero” dei diversi peccati, piuttosto che della consolazione che il Signore vuole si conceda a chi lo accosta. Qui cade però un’osservazione importante: l’accusa delle colpe non è una lista della spesa da recitare come se si fosse dal droghiere: l’accusa delle colpe è preghiera, è liturgia, entra a far parte del sacramento. Questo significa che, come penitente, devo enunciare i miei peccati con la convinzione che sono ragione di allontanamento da Dio, ma con la certezza che Dio porrà Lui l’ultima parola; si enunciano i fatti compiuti contro il Signore come motivi per cui Cristo non dovrebbe perdonarci, ma con la certezza che ci perdonerà. “Signore io non merito la tua misericordia, per questo, per quest’altro, e per quest’altro, ma sono certo che vai al di là di tutto questo”. Altro che lista della spesa! È come piangere di commozione di fronte ad una tenerezza immeritata, ma certa».
Il confessionale è la «psicoanalisi dei poveri»: in che senso può essere vero, in che senso è falso?
«Non è la psicoanalisi dei poveri; anzi, ci si confessasse di più, molti grovigli della psicoanalisi diventerebbero inutili. Occorre, invece, dire che la Confessione non è l’applicazione di un metodo freudiano o lacaniano, eccetera; può essere invece una “psicoterapia di appoggio”, dove si sentono ripetere le certezze fondamentali della vita; si riceve un senso di speranza nuovo che inevitabilmente influisce anche, con il tempo, sulla struttura psicologica: perché introduce in una pace che capiscono soltanto coloro che la provano e offre una speranza che cava dalla persona anche capacità umane per costruire la vita».
«Non mi confesso perché non ho fatto grossi peccati». Invece, a suo parere, che cosa si perde il cristiano che non si confessa, oppure si confessa poco?
«Non vi sono peccati che non siano remissibili. La sola colpa che non vuol ricevere il perdono è il non invocare la misericordia di Dio: il peccato che non può essere rimesso né in questa vita, né nell’altra. Chi non si confessa o si confessa poco perde gradatamente il senso della prossimità bruciante e dolcissima del Signore. E il continuare a ripetere che non ci si confessa perché si devono dire sempre le stesse cose è atto di offesa al Signore. Gesù non misura col metro l’avanzamento della nostra vita spirituale. Se anche abbiamo l’impressione di essere sempre a quel punto, il solo fatto di non cedere e di riprendere la vita cristiana, anche se si sa che si ritornerà quasi da capo: già questo è amare il Signore. Si aggiunga che la grazia della Confessione è ciò che la teologia spirituale chiama “lo spirito di compunzione”, che non è l’assumere il tono corrucciato e smarrito di chi non sa dove sta andando: lo spirito di compunzione ci aiuta a vedere la strada che dobbiamo percorrere nella vita, senza fretta, un passo dopo l’altro; e ci mette nell’animo un senso di tenerezza, di forza, e di abbandono al Signore che fanno dell’esistenza una vera gioia anche nel dolore».
Dossier: La Confessione
IL TIMONE – N.61 – ANNO IX – Marzo 2007 pag. 42-43