Com’è noto, il ventilato defilamento, «per non offendere la sensibilità dei fedeli di altre religioni» (in pratica, gli islamici), della statua di Santiago Matamoros («s. Giacomo uccisore di Mori») ha sollevato un vespaio di polemiche. E non solo in Spagna, e non solo da parte cattolica. Così, i canonici di Compostela hanno deciso di soprassedere.
Tra le tante voci indignate levatesi non poteva mancare, figurarsi, quella della Tfp, che nella sua rivista ufficiale, «Tradizione, famiglia, proprietà» (giugno 2004), ricordava l’apparizione dell’Apostolo alla battaglia di Clavijo dell’844. Due anni prima, l’emiro di Cordova, Abd-er-Rahman Il, aveva richiesto al re cristiano Ramiro I il tributo detto «delle cento vergini». Ramiro, nipote di Alfonso il Casto (sotto il quale l’eremita Pelayo aveva ritrovato Ia tomba di s. Giacomo a Compostela e quel re aveva consacrato il suo regno all’Apostolo), decise di non voler più sopportare quell’imposizione e, sebbene in svantaggio numerico, rispose con la forza. Ma Ie truppe cristiane vennero battute e Nájera e costrette a ritirarsi su Clavijo. La notte, s. Giacomo apparve al re e lo incitò ad attaccare battaglia. L’indomani, nel mezzo del combattimento, il Santo si presentò armato e su un cavallo bianco. Il fulgore della sua spada incusse tale terrore ai nemici che in breve la battaglia fu vinta. Da allora i re spagnoli hanno sempre offerto le primizie dei raccolti al santuario di Compostela (usanza abolita dai repubblicani nel 1933) e «Santiago!» è stato il grido di guerra delle armate.
Ma quella di Clavijo non fu l’unica apparizione bellica del patrono degli spagnoli, i quali poterono contare sulla sua attiva protezione anche nell’epopea della Conquista americana. Poiché ancora oggi c’è chi denigra i conquistadores che avrebbero avuto il torto marcio di distruggere le raffinate civiltà precolombiane praticandovi addirittura il genocidio, vale la pena di riportare una testimonianza insospettabile, quella del nipote del penultimo imperatore degli Incas, Tupac Yupanqui.
Questo autore, divenuto famoso col nome di Garcilaso de la Vega, scrisse una Historia generaI del Perù, opera nella quale si accenna alla battaglia di Cuzco che vide nel 1534 duecento spagnoli accerchiati da migliaia di indios. Gli europei tentarono una disperata sortita invocando il loro patrono, il quale apparve esattamente come a Clavijo, corazza, cavallo bianco e spada sfolgorante. Gli indios credettero di vedere Viracocha, una delle loro divinità, signore del lampo; solo che combatteva contro di loro. L’inca Garcilaso scrisse di aver conosciuto diversi anziani indios che avevano preso parte a quello scontro e ancora testimoniavano che era stato Viracocha a metterli in fuga.
Né fu quella l’unica volta in cui i conquistadores poterono contare sulla fattiva protezione celeste. Nel libro di Miguel-Léon Portilla, Il rovescio della conquista. Testimonianze azteche, maya e inca (Adelphi, 1987), si narra dell’assalto notturno al campo del conquistador Pedro de Alvarado: poche decine di spagnoli contro migliaia di aztechi. In tre riprese gli indios tentarono di attaccare ma ogni volta venivano atterrati da una luminosa fanciulla sovrastata da una bianchissima colomba, la cui vista li accecava temporaneamente e li sbatteva al suolo. Alla fine fuggirono spaventati. Si tenga presente che si tratta di una testimonianza azteca e non si vede perché un indigeno avrebbe dovuto far ricorso a simboli di una religione che gli era estranea per giustificare la propria sconfitta. L’approvazione finale, se così possiamo dire, all’impresa spagnola la diede proprio la Vergine, pochi anni dopo, presentandosi all’indio battezzato Juan Diego sul colle Tepeyac, a poca distanza da Città del Messico, l’antica capitale azteca Tenochtitlan. In quel punto gli aztechi adoravano la Grande Madre di tutti i loro dèi. La Madonna, abbigliata all’azteca, chiese la costruzione di un santuario, che fu quello, veneratissimo, di Guadalupe. A parte il miracolo della tilma (il mantello di fibra vegetale su cui apparve l’immagine «acheropita» – cioè, non eseguita da mano umana – di Maria) e dei fiori fuori stagione, nel corso delle danze tradizionali eseguite durante la cerimonia di inaugurazione del santuario un indio rimase ucciso da un freccia: portato davanti all’immagine mariana resuscitò.
Ma il vero miracolo, secondo alcuni studiosi, fu proprio la Conquista: poche centinaia di spagnoli ebbero ragione in qualche anno di imperi totalitari e perfettamente organizzati, in grado di mobilitare milioni di uomini. Per giunta, si trattava di civiltà guerriere e dedite alla guerra incessante per motivi religiosi: i prigionieri di guerra non bastavano mai per i sacrifici umani. Si calcola che in soli quattro anni nella sola Tenochtitlan vennero sacrificate ottantamila persone: la vittima veniva squartata per estrarle il cuore, poi il cadavere era fatto rotolare giù per la lunghissima scalinata del tempio; arrivato in fondo, veniva scuoiato e mangiato ritualmente. Questo, unito alle altre efferatezze di un regime follemente spietato, non aveva alcunché di «positivo» né di «mirabile» agli occhi degli europei, che si sentivano come gli israeliti di fronte alle popolazioni pagane e sanguinarie della Terra Promessa. Secondo una vulgata da bar gli spagnoli potevano contare sulle armi da fuoco e i cavalli, sconosciuti agli indios. Ma gli archibugi del XVI secolo, in quel clima umido-tropicale, facevano cilecca una volta su due e gli indigeni non tardarono a rendersi conto che anche i cavalli erano mortali. Gli spagnoli portarono, sì, malattie inedite, ma altrettante ne trovarono. Infine, basta paragonare l’America del Sud a quella del Nord: nella prima c’è un meticciato ormai indistinguibile, laddove nella seconda gli indiani sono praticamente scomparsi. Gli spagnoli, infatti, si consideravano una nazione missionaria e avevano al seguito preti e frati. Il risultato furono i matrimoni misti fin da subito, cui fece seguito una legislazione che considerava gli indios sudditi al pari degli altri.
I «re cattolici», insomma, ben meritarono il loro titolo.
IL TIMONE – N. 36 – ANNO VI – Settembre/Ottobre 2004 – pag. 20 – 21
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