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15.12.2024

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Conseguenze ideologiche e geopolitiche
2 Aprile 2014

Conseguenze ideologiche e geopolitiche

La Grande Guerra ha cambiato l’Europa e ha eliminato la sua centralità geopolitica. Ha favorito nascita e sviluppo delle ideologie che si combatteranno per i trent’anni successivi. Facilitando la penetrazione del secolarismo anticristiano. Una immensa tragedia

Il primo conflitto mondiale nasce nell’agosto del 1914 come corollario delle due guerre balcaniche del 1912/13, in cui crolla l’antica testa di ponte ottomana in Europa, nasce cioè come guerra “regionale” e in tesi circoscritta e breve.
Al contrario, sarà l’esca che farà esplodere, incontrollato, l’enorme potenziale di risentimenti e tensioni fra popoli, economie e sistemi ideologici accumulatosi nel secolo precedente. Del conflitto sarà scintilla e motore il nazionalismo, l’ideologia nata dalla Rivoluzione francese come deformazione moderna del patriottismo, che alle soglie del Novecento si contamina sempre più di motivi etnici e politici e assume il volto ancipite, da un lato, di irredentismo e, dall’altro, di pangermanesimo, panslavismo, e di ogni altro genere di egemonismo.
Non sarà un conflitto intra-europeo “classico”, ma qualcosa di nuovo e di più terribile. Il mondo alle soglie del “secolo breve”, infatti, non è più un mondo “a misura di nazione” in senso classico-moderno. Gli orizzonti si sono dilatati e altri continenti entrano in scena. Il Giappone e gli Stati Uniti d’America si avviano a svolgere anch’essi un ruolo di potenza continentale. Il controllo delle risorse naturali – il carbone, il petrolio e la gomma –, sempre più essenziali per le moderne economie industriali, innesca conflitti in ogni punto del globo. La cultura della modernità novecentesca non è più quella sentimentale e ancora garbata del secolo precedente, ma quella “dura” dell’industrialismo pesante e quella irrazionale e attivistica del futurismo. Le tecniche enormemente cresciute del XX secolo consentono alle grandi potenze di estendere il loro dominio militare e politico a spazi immensi, per mare e per terra, sì che ciascuno degli Stati europei può vantare un retroterra, più o meno ampio e consolidato, in varie aree del pianeta.

Un conflitto globale e irrazionale

Quando ci si accorge che il conflitto era diventato qualcosa di spaventoso per il sacrificio di vite umane e per le conseguenze culturali e istituzionali è ormai troppo tardi: gli odi esplosi a catena a partire dal fatidico luglio 1914 e ingigantitisi nella temperie della lotta ineluttabilmente giungeranno al loro estremo, sì che alla fine del conflitto le perdite dell’Intesa supereranno i cinque milioni di soldati e raggiungeranno i quasi tre milioni e mezzo di vittime fra gli austro-germanici: cifre che lasciano sgomenti i contemporanei e noi stessi oggi, pur abituati ai “grandi numeri”.
A spingere il livello dello scontro fino all’annientamento non sono stati tuttavia solo i rancori nazionali, ma anche, e talora soprattutto, motivi ideologici radicali.
Un’apparente irrazionalità sembra infatti muovere in certi frangenti le potenze in guerra. L’Italia scende in campo contro i propri alleati, infrangendo non solo ogni principio di lealtà, ma anche di Realpolitik. I vertici dei popoli in guerra prolungano oltre misura uno scontro militare che porta a sempre più enormi carneficine, anche se gli obiettivi di guerra di Austria e Germania – neutralizzare Francia e Inghilterra sulla Marna e creare un enorme “spazio vitale” a est con la vittoria sui russi a Tannenberg e a Leopoli – sono già di fatto raggiunti nel 1915. Neppure nel terribile 1917, quando migliaia e migliaia di uomini vanno ogni giorno al massacro per conquistare o perdere poche centinaia di metri di terreno, si decide di smettere. Infine, lo stesso intervento degli Stati Uniti, che pur non avendo nulla da spartire con il conflitto europeo, prevedono comunque d’inviare al fronte due milioni di uomini entro il 1919, apre profondi interrogativi.
Non solo: l’ossessione di abbattere “le ultime Bastiglie” – come si esprimono due autori anti-massonici, Emmanuel Malinsky († 1938) e Léon de Poncins (1897-1976) – traspare nitida dietro la volontà alleata, influenzata in maniera determinante dalla massoneria, di dissolvere la monarchia danubiana, ultimo impero dinastico europeo, odiata perché cattolica e, a suo tempo, bastione della Controriforma o Riforma cattolica. Un’analoga ossessione si manifesta nell’umiliazione del Reich, falcidiato territorialmente e trasformato in una Repubblica democratica “a sovranità limitata”, così come nella democratizzazione e laicizzazione dell’Impero Ottomano, ristretto alla sola Penisola Anatolica e a Istanbul.
Tutto ciò lascia intendere che dietro la sprezzante Realpolitik che sembra ispirare gli Stati in guerra si muova un’altra Politik, meno ancorata al “reale” ma altrettanto cinica, poco visibile e più prona a visioni utopistico-rivoluzionarie.

Il tramonto dell’Europa
Quando, nel novembre del 1918, i cannoni smettono di sparare – con anticipo sui pronostici –, e la guerra mondiale ha termine, lo scenario mondiale non è più lo stesso. L’Europa degli elmi a chiodo e dei pennacchi, l’Europa delle operette e della cavalleria non c’è più. Britannici e francesi sembrano in apparenza ancora i padroni del mondo, ma il declino dei due imperi – ingranditisi con i brandelli delle colonie tedesche e dei territori ottomani – è ormai inesorabile.
Il mondo è sconvolto e gli occorreranno almeno altri tre anni per assestarsi: le armi parleranno ancora in conflitti locali, virulenti e sanguinosi, nel Baltico, in Russia, in Oriente, come pure nella repressione dei moti bolscevichi in Germania, Austria, Ungheria.
Dal crogiolo del conflitto sono emersi nuovi e più potenti protagonisti della scena mondiale. Gli Stati Uniti, già impostisi come potenza regionale nel Pacifico e nel continente latino-americano, con l’aiuto prestato al traballante impero britannico hanno posto un’ipoteca a lungo termine sulle vicende politiche europee. Il Giappone, alleato all’Intesa. E la Russia, dove una Rivoluzione comunista ha spazzato via lo zar e il regime borghese, ora si accinge, attraverso la forza intellettuale del relativismo dialettico marxista e l’enorme esercito rosso, a estendere il suo regime sui popoli asiatici e a esportare la sua rivoluzione negli Stati dell’Europa occidentale.
L’Europa come centro della politica mondiale, nonostante le illusioni dei vincitori, tramonta definitivamente.

La nazionalizzazione delle masse
Anche al suo interno il Vecchio Continente non sarà più lo stesso. La guerra, con la sua gigantesca mobilitazione e dislocazione di masse umane – specialmente di quelle rurali, rimaste in gran parte estranee alla modernizzazione –, con le lunghe e ripetute ferme e la promiscuità della trincea, dove muoiono fianco a fianco socialisti e reazionari, cattolici e liberali, borghesi e operai, padroni e povera gente, avrà l’effetto di compiere nei popoli quel processo di formazione del senso nazionale, riconciliandoli con gli Stati nati nell’Ottocento dai risorgimenti e dalle classi dirigenti liberali. Gli studiosi chiameranno “nazionalizzazione delle masse” questo effetto della guerra sulle popolazioni. Anche l’economia di guerra, con la sostituzione di popolazione femminile a quella maschile nelle officine e nei servizi pubblici, ha drasticamente modificato i rapporti fra classi e sessi. Le dinamiche secolarizzatrici, dopo il gigantesco passo in avanti compiuto nel 1789, nel dopoguerra diventano un fenomeno di massa. Né il fascismo, né il nazionalsocialismo, né il comunismo sarebbero pensabili senza l’esperienza di controllo sociale che i popoli hanno subito negli anni della guerra.
Presto, però, le masse, preda delle ideologie egualitarie, affascinate da prospettive espansionistiche e internazionalistiche, sfuggiranno agli Stati-nazione. E le democrazie postbelliche, lacerate dagli egoismi nazionalistici “aggiornati” e minati dall’incipiente lotta di classe, ondeggeranno fra soluzioni autoritarie – che in Italia prenderanno la forma del fascismo e in Germania quella del socialismo nazionale hitleriano, razzista e darwinista – e derive “popolari” e marxiste, su cui s’innesterà l’imperialismo sovietico, come in Spagna.

Una nuova Guerra dei Trent’anni

Versailles – che escluderà la Santa Sede –, più che un congresso di pace, sembrerà un tribunale che applica le “leggi” wilsoniane e s’ispira alle tavole di valori delle logge massoniche. I nazionalismi e le ideologie vi disegneranno l’Europa e il mondo del futuro, ma il progetto di “pace perpetua” dei vincitori si tradurrà al contrario in una bomba a orologeria, destinata a scoppiare a breve. La follia di spezzare in due la Germania con il cosiddetto “corridoio di Danzica” – nato per dare uno sbocco al mare alla neonata Polonia indipendente – sarà l’“alzata” più precisa per le future “schiacciate” di Adolf Hitler, nonché il carburante che alimenterà il revanscismo tedesco, già esasperato dall’imposizione di riparazioni di guerra spropositate e dall’occupazione francese della Renania.
Ma anche l’artificialità dei confini e delle zone d’influenza assegnati agli Stati nati dal crollo austro-ungarico o benemeriti dell’Intesa fomenterà rivalità e irredentismi a non finire. La morte dell’Impero asburgico creerà al centro del continente un vuoto enorme, destinato a divenire oggetto di ininterrotte frizioni fra le potenze circostanti. Come la Prima guerra mondiale scoppia a causa della Serbia, nata dal disfacimento ottomano, così la Seconda esploderà a causa della Polonia, nata dalla dissoluzione asburgica e zarista.
Non si può infatti capire la Grande Guerra senza considerare il secondo conflitto mondiale, che deflagrerà proprio perché i processi che hanno condotto al primo sono stati inaspriti da come la guerra è stata condotta e dalla configurazione data alla carta dell’Europa nei trattati parigini. La Seconda guerra mondiale nasce nel 1919 a Versailles, piuttosto che a Danzica nel 1939. Grazie specialmente agli studi di Ernst Nolte, è impossibile non vedere le due “grandi guerre” come un continuum, come capitoli di un unico libro, come due momenti del confronto finale autodistruttivo tra le forze ideali e materiali che matura nell’Europa moderna nel corso del secolo XIX: un’unica guerra, una nuova Guerra dei Trent’anni, ideologica e civile al tempo stesso, di cui sono protagonisti i frammenti impazziti e secolarizzati di quella che fu un tempo l’Europa della cristianità. Una guerra che avrà come risultato ultimo l’uscita dell’Europa dal centro della storia e la caduta di oltre settanta milioni di europei dell’Est sotto il tallone comunista.


Per saperne di più…

Pierre Renouvin, La prima guerra mondiale, trad. it., Newton Compton, 1994.
François FejtÅ‘, Requiem per un impero defunto, 1988, trad. it., Mondadori, 1996.

IL TIMONE –  Aprile 2014 (pag. 39-41)

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