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13.12.2024

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Cosa Maria divenne ‘La Madonna’
31 Gennaio 2014

Cosa Maria divenne ‘La Madonna’

 

 

 

Abbiamo visto la volta scorsa chi fosse John-Henry Newman e quale importanza abbia avuto quella sua conversione al cattolicesimo che egli stesso non prevedeva, che gli costò molto sul piano del sentimento e anche della rispettabilità sociale nell’Inghilterra dell’Ottocento, ma che gli fu imposta dalla coscienza. In effetti, gli studi sui primi secoli della Chiesa, la lettura sistematica dei grandi Padri greci e latini, l’approfondimento dell’antica liturgia gli mostrarono una realtà inequivocabile. E, cioè, la fede cattolica di quel suo XIX secolo era il legittimo sviluppo della fede apostolica e non (come affermavano scandalizzati anglicani e protestanti) un coacervo paganeggiante di elementi estranei alla Rivelazione. Man mano che avanzava nello studio e nella riflessione, il pastore John-Henry – sino ad allora convinto apologeta della Chiesa anglicana come via media tra le superstizioni cattoliche e l’esagerata reazione protestante – scopriva con sgomento ciò che all’inizio della ricerca non avrebbe mai voluto ammettere. L’autentico Credo romano, cioè, era il risultato legittimo e armonico di un millenario approfondimento del “deposito” evangelico. E questo valeva anche – anzi, soprattutto – per quella “mariologia” cattolica, per quella progressiva espansione della presenza della Vergine nella teologia e nella devozione che era la maggior pietra di scandalo per i riformati che vi vedevano solo miti mediterranei. Si ricordi che ancora cent’anni dopo Karl Barth, il più celebre e il più influente teologo evangelico del XX secolo e che Giovanni XXIII volle come osservatore al Concilio Vaticano II, definiva la dottrina mariana della Catholica come «un cancro che va estirpato per ritrovare il vero Evangelo». Una metastasi che la Gerarchia aveva permesso, anzi favorito, e che per Barth – come già per i primi riformatori, Lutero e Calvino – faceva sì che fosse tragicamente appropriato il nome di Anticristo attribuito al Pontefice romano. Proprio lui, infatti, era il garante di una religione diventata idolatria, con l’adorazione della Grande Madre dei paganesimi precristiani.
Il giovane Newman, gentleman molto inglese, era forse meno brutale ma era sostanzialmente d’accordo. Dopo il viaggio in Italia nel 1832 (aveva 31 anni) scrisse, come già abbiamo ricordato, che «le devozioni italiane lo disgustavano » e aggiunse: «Man mano che cresceva il mio doveroso rispetto verso la Vergine Maria, tanto più mi diventavano intollerabili le dottrine e le devozioni di Roma e soffrivo pensando a come dovesse sentirsi addolorata quella dolce Creatura per gli indebiti e superstiziosi onori che le erano attribuiti». E ancora nel 1841, in pieno travaglio di ricerca, a soli quattro anni dalla piena conversione che lo avrebbe portato al cardinalato e, oggi, agli onori degli altari come beato: «Non potrò mai passare a Roma finché tollererà quel culto mariano che, in coscienza, reputo incompatibile con l’onore del Cristo e con la gloria di Dio».
Sapeva dunque quel che diceva quando, più di vent’anni dopo, si rifaceva alla sua stessa esperienza per replicare al reverendo Edward Pusey che aveva pubblicato un libro il cui titolo completo era: La Chiesa anglicana, parte della Chiesa di Cristo, una, santa e cattolica e mezzi per ristabilire l’unità visibile. Il pastore Pusey era un vecchio confratello e amico di Newman e insieme avevano militato nel “Movimento di Oxford” che, pur nel rispetto delle tradizioni anglicane, parteggiava per un avvicinamento con la Chiesa cattolica. Un impegno che non era pacificamente tollerato in Inghilterra, tanto che Pusey era stato censurato dalle autorità dell’università di Oxford, dove insegnava, per un sermone dove difendeva la tesi della presenza reale nella eucaristia. Ebbe poi altri problemi perché chiese il ritorno alla pratica cattolica della confessione individuale. Il reverendo Pusey venerava la Vergine. E desiderava l’apertura di trattative tra Roma e Canterbury considerandole (come lo stesso Newman quand’era pastore) come due rami egualmente legittimi dello stesso tronco cristiano. Ma, sulla strada della riunione, c’erano per lui gli abusi romani, soprattutto nel campo dottrinale e devozionale mariano. Abusi non soltanto tollerati ma spesso provocati dalla Gerarchia la quale, nel 1854, undici anni prima, era giunta a proclamare un terzo, inaccettabile dogma, quello dell’Immacolata Concezione. Il libro che pubblicò nel 1865 voleva essere un atto di buona volontà ecumenica: una esortazione a Roma perché togliesse alla sospirata riunione questo ostacolo della superstizione cresciuta secolo dopo secolo attorno a una Vergine alla quale doveva essere riservato un culto sobrio, come nella Chiesa primitiva. Le esagerazioni del cattolicesimo erano per Maria, certamente, motivo di afflizione e non di compiacimento. Appena ricevuta la pubblicazione di Pusey, Newman reagì, mettendosi al lavoro, con l’antico rispetto per colui che gli era stato confratello nella comunità anglicana e collega nell’insegnamento universitario. Rispetto e amicizia ma al contempo chiarezza e precisione teologica. Per lui, l’ecumenismo (che praticava nella sostanza, anche se il nome, allora, non era ancora usato) non significava un impoverimento del cattolicesimo ma la proposta, ai fratelli separatisi nel XVI secolo, di una ricchezza irrinunciabile come l’approfondimento cattolico sulla Madre di Dio. Ciò che occorreva, per lui, non era spogliare un interlocutore del suo patrimonio dottrinale per compiacere l’altro, ma far parte a questo di ciò che il sensus fidei dei credenti e la riflessione dei teologi cattolici avevano tratto fuori dalle profondità della Parola di Dio. Dal lavoro di Newman nacque cosi, in poche settimane, quella Lettera al reverendo Edward Pusey, in cui si riassumono i risultati di decenni di ricerca ma anche di travaglio intimo.
La domanda fondamentale, cui dare risposta, era questa: se, come è evidente, la mariologia dei primi secoli cristiani non è certo quella del XIX secolo, si tratta di un ampliamento abusivo della Rivelazione o di un approfondimento non solo legittimo ma doveroso che ha portato a uno sviluppo organico della dottrina?
Per cercare di capire lo sfondo del problema, cominciamo col dire, per amore di verità, che la Riforma afferma di volere rifarsi alla sola Scrittura e a tutta la Scrittura; ma, in realtà, ha creato una griglia teologica che filtra ciò che conferma la sua prospettiva ed esclude ciò che la contrasta. Cominciò Lutero stesso il quale, partendo da un paio di versetti di san Paolo (peraltro staccati dal contesto), costruì il suo inedito cristianesimo attorno alla giustificazione per sola fede e lanciò un anatema contro le opere di carità che non salverebbero ma, anzi, sarebbero pericolose perché ci darebbero l’illusione di potere salvarci con le nostre forze umane. Il motto che gli è attribuito – Pecca fortiter sed crede fortius, pecca fortemente ma credi ancor più fortemente – rispecchia un po’ brutalmente eppure in modo legittimo la sua prospettiva. Ma, nella Scrittura, le cose sono sempre molto più complesse di quanto creda chi voglia leggerla e interpretarla basandosi solo su un aspetto e respingendo il magistero della Chiesa. Così, fra’ Martino escluse dalla sua costruzione teologica, fatta in orgogliosa solitudine, i passi sia dell’Antico che del Nuovo Testamento che affermano proprio la necessità delle opere ispirate dalla fede per conseguire la salvezza eterna. Uno dei passi più imbarazzanti sta nella lettera dell’apostolo Giacomo che, nel secondo capitolo, dice esattamente il contrario di quanto predicava Lutero: «A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Quella fede può forse salvarlo? […] la fede, se non è seguita dalle opere, è morta […], insensato, vuoi capire che la fede senza le opere non ha valore? […] sappi come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta ». Potremmo continuare con altre citazioni. Ma questo ci basta per capire perché Lutero – e dopo di lui Calvino e tutti gli altri innumerevoli creatori di comunità protestanti – tentò di uscire dal disagio, proclamando che la lettera di Giacomo era «una lettera di paglia», che non andava presa sul serio e dichiarandola «apocrifa ». Una esclusione di sua sola iniziativa, visto che sino ad allora nessun l’aveva considerata tale.
Per tornare a noi. Il filtro, spesso più ideologico che teologico, della Riforma ha bloccato e rimosso anche una affermazione di Gesù nel solenne discorso di arrivederci ai discepoli nella cena prima della Passione. Un discorso decisivo, che è una sorta di testamento spirituale e dà preziose indicazioni per il futuro della comunità. Ebbene, così afferma Colui che risorgerà, ma dopo la morte sulla croce: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà Lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà». Se gli inventori, nel Cinquecento, del “nuovo cristianesimo”, che doveva basarsi su tutta la Scrittura, nulla escluso, se hanno censurato anche questo brano, la ragione è evidente: qui, in effetti, ha radice la prospettiva cattolica, secondo la quale due sono le fonti della fede. La Bibbia scritta, certo. Ma anche la Tradizione, che altro non è se non quell’approfondimento delle parole di Gesù, quella scoperta della densità delle sue affermazioni, sotto l’ispirazione dello Spirito, annunciato dal Cristo. Nei Vangeli c’è la Verità ma questa non è solo quella che appare a prima vista. Quei testi inesauribili, infatti, non esauriscono il loro significato a una lettura per quanto attenta, ma nascondono ricchezze di cui gli apostoli, quando il Maestro era ancora visibile tra loro, «non erano capaci di portare il peso». Così che, dopo tanti secoli, dopo tanto approfondimento consegnato alla Tradizione, noi possediamo della Rivelazione una visione più completa e profonda di quella concessa ai discepoli. Molte cose, nella Scrittura, non sono che embrioni, destinati a crescere con uno sviluppo organico. A cominciare dalle verità su Maria. Questa è icona della Chiesa perché anche la Chiesa è madre, perché, nel suo mistero, è essa pure immacolata e perché ogni giorno genera nuovamente Gesù nell’eucaristia. Ora, di Maria il vangelo di Luca (2,19) dice «Ella custodiva tutte queste cose meditandole nel suo cuore». Così ha fatto la Chiesa nel tempo, ha meditato sul mistero mariano e ne ha tratto quanto nella Rivelazione scritta era soltanto implicito. Per questo è occorso molto tempo, quattro secoli, prima di giungere a definire ad Efeso la maternità divina; e solo nell’epoca di Newman il Magistero è giunto a precisare e a proclamare il dogma della Immacolata Concezione. Il reverendo Pusey auspicava, nel suo libro, che la Chiesa si arrestasse e non proclamasse più dogmi mariani, dopo quello della Verginità perpetua, della Maternità divina (questi due, almeno formalmente, accettati anche dalla Riforma) e, poi, l’allora recentissima e contestata Concezione immacolata. Ma Newman gli replicava che non sta certo a noi mettere limiti allo Spirito che, secondo la promessa di Gesù, avrebbe continuato sino alla Parusia a guidare i credenti verso la Verità tutta intera. E, in effetti, nel 1950 giungerà la proclamazione ufficiale della Assunzione al Cielo. E nessuno può dire che cosa avverrà in futuro e se altre verità saranno portate alla luce. Come scrive il nostro futuro cardinale e ora beato: «Chi ha almeno intuito che cosa sia la Maternità divina, sa che non possono essere assegnati limiti alla santità della Madre né limiti nel lodarla e nel venerarla. È nostro dovere solo la consapevolezza, sempre vigile, che questa creatura è pur sempre tale, è una redenta dal Figlio, non è una dea e neppure una semidea». Non caso, è piena di significato (è un altro caso di parola scritturale che va scavata sino in fondo) il solo accenno che Paolo fa a Maria, nella lettera ai Galati: Gesù, dice, «è nato da una donna». Una donna, appunto, non una creatura celeste.
Il caso mariano è in questione nella Lettera a Pusey ma, avverte Newman, l’approfondimento e lo sviluppo della verità evangelica non riguardano lei soltanto.  
Scrive, dunque: «Se la dottrina mariana e la devozione conseguente fossero state le sole ad ampliarsi nei secoli, noi avremmo una dottrina deformata e magari mostruosa. Ma la fede è un tutto organico ed equilibrato e lo Spirito prosegue il suo lavoro, ispirando e assistendo i credenti che meditano. Così, tutta la comprensione cattolica del Credo è cresciuta, così che le proporzioni delle parti dell’insieme sono restate le stesse e tutte si sostengono e si illustrano reciprocamente». Newman aggiunge che questo equilibrio non è stato conservato da quel mondo protestante da cui proveniva e al quale aveva aderito nella sua giovinezza con convinzione e passione. La Riforma non accetta la Tradizione, meno che mai quando si tratta di “arianesimo” (così lo chiama, giudicandolo una ipertrofia, una metastasi, un ritorno alla idolatria) e resta ferma alla lettera del Vangelo quando si tratta di Lei di cui – apparentemente – il Libro sacro poco parla. Eppure, con una delle sue tante contraddizioni, la Riforma ammette la liceità dello sviluppo dogmatico di fronte alla base stessa della Fede: la Trinità divina. Newman: «I Credo cristiani più antichi menzionano il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo ma senza precisare che sono Uno ed eguali, tutti increati ed eterni e senza avere chiaro le relazioni interne alla Trinità. Per meglio comprendere l’insondabile mistero sono stati necessari secoli di riflessione, di approfondimento, di scavo al di sotto delle parole del Nuovo Testamento. Su Dio, la crescita è riconosciuta ed è approvata mentre è respinta con sdegno la crescita per quanto riguarda la Madre di Dio».
C’è qui, del resto, un legame profondo: il Concilio di Efeso, dell’anno 431, proclamando Maria come Theotòkos, come Madre di Dio, aprì la strada alla scoperta sempre più profonda e gioiosa delle glorie di Lei; ma, al contempo, la meditazione sul suo ruolo aiutò a meglio precisare la realtà misteriosa della Trinità stessa. La Vergine non è ai margini della fede, non è un accessorio, un pleonasma: è al cuore del Credo. I Vangeli ne parlano poco? Solo chi li legge superficialmente può affermarlo: non moltissimi (ma neppure pochissimi) sono i versetti che la riguardano, ma ciò che conta non è la quantità bensì la qualità. Sin dall’inizio di tutto, cioè dall’Annunciazione, fino alla fondazione della Chiesa a Pentecoste, la Vergine è presente in tutti gli snodi fondamentali della vita e dell’insegnamento del Figlio. Non a caso quelle non molte parole non hanno ancora finito di rivelare il loro strabiliante spessore. Spiega poi Newman: «La Bibbia è un racconto, dunque parla soprattutto di coloro che hanno esercitato un ruolo visibile. Così, il Nuovo Testamento parla molto di Paolo, che pure non seguì il Maestro quando era in vita, e ne parla ben più che di Giovanni, che pure era “il discepolo che Gesù amava”. È come se il Cristo avesse voluto conservare nell’intimità del chiaroscuro i sentimenti più sacri, come l’amore verso la madre e l’affetto verso il discepolo ». Ma un altro amore, quello dei cristiani per Lui, ha pian piano penetrato quel riserbo, scoprendo almeno qualcosa delle verità che celava nel chiaroscuro.
Proprio perché sempre più consapevole del fatto che Maria non è marginale ma centrale, Turris davidica è l’invocazione mariana delle litanie del Rosario sulla quale Newman invita Pusey a riflettere innanzitutto. È il richiamo alla torre di difesa che il re David fece costruire e alla quale stavano appesi gli scudi dei valorosi pronti ad opporsi a chi volesse assaltare la Città Santa. La scoperta progressiva dell’importanza della Madre è stata, soprattutto nei primi secoli cristiani – ma in fondo sempre nella storia –, la migliore tutela del Figlio. Ogni dogma su di Lei è, in realtà, una difesa di Lui. Ecco alcune delle parole del nostro beato: «Chiamiamo Maria, tra i molti titoli, anche “Torre di David” perché ha eseguito, ed esegue, in modo ammirabile il suo compito di difendere il Divin Figlio contro gli assalti dei suoi nemici, intesi come eretici con le loro pseudoverità eterodosse. Per i protestanti è un’abitudine pensare che gli onori che noi cattolici tributiamo a Colei che chiamiamo Nostra Signora siano di nocumento al culto supremo dovuto a Gesù Cristo, culto che sarebbe eclissato dal culto alla Vergine. Ma questa è cosa del tutto contraria a verità, come mostra sia la dottrina sia l’esperienza della Chiesa romana».
Per cui, Newman poteva scrivere all’amico restato anglicano che chiedeva un ridimensionamento della presenza della Vergine, parole che vale la pena di riportare così come stanno nella Lettera: «Si continua ad affermare che gli onori cattolici tributati alla Vergine, i quali hanno avuto origine dalla devozione al suo Figlio e Signore onnipotente, finiscono per indebolire questa devozione. E si dice che non è possibile esaltare in tal modo una creatura senza allontanare cuore e mente dal Creatore. Ma io osservo che coloro che ammettono l’autorità del Concilio di Efeso (e anglicani e riformati la ammettono, almeno formalmente) dovrebbero sapere che la definizione di Theotòkos, Madre di Dio, data da quei Padri alla Vergine, ha lo scopo di difendere la realtà e la verità dell’Incarnazione del Verbo e di evitare che la fede diventi un umanesimo. Se è “Madre di Dio” è perché colui che ha partorito non era soltanto un uomo. Affermare che Dio ebbe una Madre è il modo migliore per salvare la fede nel Cristo nella sua interezza di vero Dio e vero uomo». Continua Newman, passando – da buon inglese pragmatico – al piano dell’esperienza: «Se diamo uno sguardo all’Europa di questa nostra seconda metà del XIX secolo, vediamo che stanno abbandonando l’adorazione di Gesù come Dio non i cristiani che si sono sempre distinti per la devozione verso Maria, ma proprio quelli che hanno abbandonato e rifiutato indignati questa devozione. Si sta estinguendo lo zelo per la gloria del Figlio là dove si è estinto lo zelo per l’esaltazione della Madre. Così, coloro che furono accusati di adorare una creatura in luogo del Creatore lo adorano ancora. E coloro che avevano la pretesa di adorarlo con maggior purezza, rimuovendo se non disprezzando la venerazione per la Madre, hanno cessato di adorarlo». Per comprendere questo allarme di Newman per l’indebolimento della fede, non si dimentichi che quest’uomo non era affatto un “cattolico liberale”, come spesso credono coloro che lo conoscono solo per sentito dire. Era “liberale”, certo, nel doveroso rifiuto di ogni coercizione religiosa e nella sacrosanta consapevolezza che il Vangelo può e deve essere proposto e mai imposto. Se Dio è amore e desidera essere amato, dobbiamo renderci conto, tutti, che un amore a comando non è più tale. Un “liberalismo pastorale”, dunque, al quale però si accompagnava la lotta di tutta la sua vita – prima come anglicano e poi come cattolico – contro il “liberalismo dogmatico”. Quello, cioè, che – soprattutto nei Paesi protestanti – stava trasformando il cristianesimo in una sorta di deismo massonico e voleva “demitizzare” profezie, miracoli, la Trinità stessa. Per questo venerava Maria come “Torre di David” ma anche come “Stella del mattino”: colei, cioè, che indica la giusta rotta per seguire quel Gesù che non è un “un uomo insigne” ma è il Salvatore degli uomini.
A questo punto, però, il “conteggio parole” del computer mi avverte che lo spazio è finito. Peccato, bisognerà concludere il discorso la prossima volta: ne varrà la pena, questo nuovo Beato è una guida troppo preziosa per camminare, consapevolmente, accanto alla Vergine.

 

 

 

 

 

IL TIMONE  N. 105 – ANNO XIII – Luglio/Agosto 2011 – pag. 64 – 66

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