Perché emigrano i cristiani?
Certo i problemi sono molti: lo scontro israelo-palestinese che dura da decenni, ma che in questi tempi si è radicalizzato, ha una sua influenza. Anzitutto economica: è difficile trovare lavoro; i salari non sono alti; le case non si trovano o sono carissime, l’insicurezza è alle stelle, creata dal terrorismo islamico e dalle distruzioni israeliane fatte per rappresaglia. Quando la spirale di violenze e rappresaglie diviene continua e non si vede nessuna via d’uscita, e i politici di entrambi i popoli battono il passo e tengono soltanto le posizioni, tutto sembra perduto.
AI fondo c’è ormai una carenza nella speranza che la pace sia a portata di mano. I palestinesi cristiani hanno sempre condiviso il destino della stragrande maggioranza palestinese musulmana. Nei decenni scorsi, il manto del nazionalismo e della patria palestinese metteva in secondo piano l’appartenenza religiosa. Ma dopo la prima Intifada e la seconda, entrambe senza effetti, tutto è diventato più confuso: è aumentata l’anarchia, l’illegalità, la corruzione dei leader nei territori palestinesi e si è stabilito sempre di più il potere di Hamas e dell’estremismo islamico. I leader politici sono interessati a conservare il potere; gli islamismi sono interessati solo a una distruzione escatologica. In questo modo i cristiani fanno fatica a riconoscersi nell’attuale lotta palestinese. Essi non accettano la mentalità islamica, che giustifica gli attentati terroristi, e questo li rende diversi dall’ambiente attorno. Sempre più si registrano tensioni fra cristiani e musulmani nel mondo studentesco e del lavoro.
Dall’altra parte, nel mondo israeliano, i cristiani non godono di migliore agio. L’influenza dei fondamentalisti religiosi in Parlamento e le lotte intestine nella destra al potere indeboliscono anche qui ogni prospettiva politica. L’immobilismo e la mancanza di futuro stanno facendo scivolare la società israeliana verso una difesa ad oltranza dell’identità ebraica attraverso l’isolazionismo. Secondo alcuni studiosi d’Israele, la “mentalità dell’assedio”, simboleggiata dalla decisione di circondare Israele con mura, reticolati, barriere, può avere conseguenze molto più profonde del semplice fermare i terroristi. Israele si sta rinchiudendo, immobilizzando, forse anche socialmente e culturalmente.
Tutto ciò non incoraggia sviluppi pluralisti, con spazi adeguati alle minoranze, compresi i cristiani. Anche qui si registrano, oltre alle emarginazioni dei cristiani sul lavoro e nei passaggi di confine, episodi di razzismo e di disprezzo anche fra i giovani. A Giaffa, varie volte studenti cristiani sono stati picchiati da bande di israeliani ebrei.
E che dire poi della piccola comunità cattolica di lingua ebraica – ufficialmente sono 300 – che vive la sua fede quasi di nascosto, i cui membri sono spesso bollati dagli israeliani come “falsi fratelli”?
La società israeliana fa di tutto per spingerli a rinnegare la fede cristiana, mentre per legge rimane proibito il proselitismo verso gli ebrei. Nel mondo israeliano vi è anche il tentativo di frenare la presenza ufficiale della Chiesa. Le centinaia di religiosi e religiose che attendono i rinnovi dei permessi di residenza; il rifiuto di dare il visto a sacerdoti e suore dell’Africa e dell’Asia rende difficile perfino mantenere in piedi le istituzioni cattoliche (ospedali, scuole, seminari, conventi, pensionati per anziani e per handicappati).
L’occupazione israeliana e l’anarchia palestinese; il fondamentalismo ebraico e quello islamista schiacciano i cristiani e li spingono ad emigrare. Ma senza speranza per i cristiani, non ci sarà speranza nemmeno per il Medio Oriente e per il mondo.
IL TIMONE – N. 36 – ANNO VI – Settembre/Ottobre 2004 – pag. 18 – 19
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