Nella visita apostolica nell’isola caraibica Benedetto XVI inviterà il popolo a recuperare le sue radici e la sua storia di fede. Ma le deboli aperture degli ultimi anni, dopo il viaggio di Papa Wojtyla del 1998, non devono far dimenticare le crudeltà del regime castrista
«Possa Cuba aprirsi con tutte le sue magnifiche possibilità al mondo e possa il mondo aprirsi a Cuba!». È famoso l’appello lanciato da Giovanni Paolo II al suo arrivo nell’isola caraibica, durante il viaggio del gennaio 1998. In precedenza, nel novembre 1996, Fidel Castro, leader storico della rivoluzione cubana e in quel momento presidente del Governo e dello Stato, aveva incontrato Wojtyla in Vaticano.
Oggi, a distanza di poco più di 14 anni dalla storica visita del pontefice polacco, il successore Benedetto XVI torna nel Paese centramericano, dal 26 al 28 marzo, in occasione dei 400 anni dalla scoperta dell’immagine miracolosa della Vergine della Carità del Cobre. Cuba da molti italiani è apprezzata per le belle spiagge e come meta di turismo sessuale e i comunisti nostalgici la considerano ancora la culla di un immaginario “hombre nuevo”, frutto dell’ideologia marxista, in realtà mai nato. Il 10 dicembre 2009, ricevendo le credenziali di Eduardo Delgado Bermúdez, nuovo ambasciatore di Cuba presso la Santa Sede, papa Ratzinger affermava: «Il servizio principale della Chiesa ai cubani è l’annuncio di Gesù Cristo e il suo messaggio di amore, di perdono e di riconciliazione nella verità. Un popolo che percorre questo cammino di armonia è un popolo che nutre la speranza di un futuro migliore ». In sostanza è questo il fine del viaggio apostolico del Papa, in una terra dalle evidenti radici cristiane e che da 76 anni mantiene relazioni diplomatiche con la Santa Sede, ma che conserva le caratteristiche di un regime totalitario e antidemocratico, malgrado le parziali aperture seguite al viaggio di Wojtyla (è stata ripristinata la festa di Natale, abolita dal 1961) e confermate da Raul Castro, il fratello del “lìder maximo” Fidel. Proprio a proposito di Fidel Castro la figlia Alina, in esilio a Miami, ha sostenuto in un’intervista a un quotidiano italiano che il padre – già scomunicato il 3 gennaio 1962 da Giovanni XXIII in quanto ateo militante – starebbe per convertirsi e tornare alla fede cattolica. Non sappiamo quanto sia credibile questa notizia: se vera, ci conforta. Ma questo non toglie nulla al giudizio storico sul regime castrista e alle sue atrocità, troppo facilmente dimenticate. Proviamo a rinfrescare la memoria non solo alla nostra sinistra, estrema e moderata, ma anche a tanti cattolici affascinati da un’immagine idealizzata e falsa di Cuba. Lasciamo parlare le cifre e i fatti.
15 mila condanne a morte, 150mila detenuti politici, 2 milioni in esilio
Fidel Castro entra trionfante a L’Avana, la capitale dell’isola, alla testa dei suoi barbudos, l’8 gennaio 1959. Nel giro di poche settimane fa giustiziare 600 sostenitori del dittatore deposto Fulgencio Batista. Negli anni successivi, le vittime del regime salgono a oltre 15mila, molte delle quali appartenenti alle fila della stessa rivoluzione, mentre sono 150mila i cubani chiusi nelle carceri e nei campi di concentramento, subendo ogni forma di violenza e umiliazione, fisica e spirituale. Chi rifiuta i lavori forzati (fino a 15 ore al giorno, spesso nudi) è obbligato a tagliare l’erba con i denti oppure viene immerso nei pozzi neri; si ricorre all’elettrochoc, alla privazione del sonno, alle gabbie del ferro, a ogni sorta di tortura. Drammatica, in particolare, la condizione delle donne detenute: picchiate abitualmente e costrette a vivere in mezzo agli escrementi, quelle che hanno paura degli insetti sono rinchiuse ore e ore in una cella piena di scarafaggi.
Subito, dal 1959, è stroncata la libertà di stampa, con la chiusura di tutte le testate libere. Nel 1960 la magistratura passa sotto il controllo del potere politico. Nel 1961 si chiudono tutti i collegi religiosi e 131 sacerdoti sono spinti a espatriare. Nello stesso anno sono 5mila i cittadini cubani, per lo più borghesi che avevano appoggiato Castro, che fuggono dall’isola: è solo l’inizio di un esodo ininterrotto. Oggi, a mezzo secolo di distanza, 2 milioni di cubani su 11 milioni vivono in esilio, la maggior parte negli Stati Uniti, nella vicina Florida. Nel 1962 è abolito il diritto di sciopero, dopo lo scioglimento dei sindacati indipendenti. Tra il 1959 e il 1962 nasce una sorta di Gestapo rossa, la DSE, per sorvegliare tutti i dipendenti della pubblica amministrazione, in particolare chi opera nella cultura, nell’arte e nello sport, intercettare tutti i sospetti, controllare la posta, spiare i turisti. Un’altra organizzazione, la DEM, stila dossier su tutti i cittadini, sonda le loro opinioni e sorveglia le chiese e gli istituti religiosi grazie all’infiltrazione di agenti.
Con il passare degli anni, la situazione non cambia. Mentre ha inizio il tentativo di “esportare” la rivoluzione, soprattutto in America Latina (con il sanguinario medico-guerrigliero Che Guevara) e in Africa, nel 1978 Fidel ne pensa una nuova: si inventa la legge di “pericolosità predelittuosa”, in base alla quale diventa crimine ogni pensiero che non sia conforme a quello del regime. Si capisce allora perché è arrestato chiunque scoperto in possesso dei libri di Orwell, che aveva prefigurato il “paradiso comunista”. In tempi più recenti la situazione non è molto migliorata. Nel marzo di nove anni fa, 75 dissidenti, sommariamente processati, sono condannati a un totale di 1.454 anni per reati d’opinione, con pene variabili da 6 a 28 anni. Oggi sono ancora oltre 300 i detenuti accusati di “pericolosità sociale”.
Ancora vittime, nell’attesa di una «primavera cubana»
Le Dame in Bianco e la Commissione Cubana per i Diritti Umani, organizzazione illegale diretta da Elizardo Sanchez, hanno denunciato un aumento delle detenzioni arbitrarie nel 2011. Si parla di oltre 4mila arresti temporanei di persone che stavano manifestando il loro pensiero in forma pacifica. Nel solo mese di dicembre 2011 si contano ben 796 detenzioni di breve durata, avvenute senza valido motivo. Il dissidente cubano Wilmar Villar, 31 anni, è morto lo scorso 19 gennaio in un ospedale di Santiago di Cuba, città dove si recherà anche il Papa, dopo 50 giorni di sciopero della fame. La morte di Villar, passata sotto silenzio nei media italiani, si aggiunge a quella di Orlando Zapata, un altro dissidente deceduto nel 2010 dopo un digiuno di 85 giorni.
Nella vita della Chiesa a Cuba si vede che c’è un prima e un dopo Giovanni Paolo II. «Dopo la visita di papa Wojtyla sono cresciute le vocazioni, in particolare quelle sacerdotali», sottolinea il cardinale Jaime Lucas Ortega y Alamino. Benedetto XVI incontrerà forse entrambi i fratelli Castro, e probabilmente otterrà un’accoglienza almeno pari a quella tributata al suo predecessore. Per Guzmán Carriquiry, segretario della Pontificia Commissione per l’America Latina, «questa visita nasce nel segno di Maria: avviene infatti in pieno anno giubilare mariano, quattro secoli dopo la scoperta dell’immagine della Vergine del Cobre, e dopo 16 mesi e 28 mila chilometri in cui quest’immagine è stata portata casa per casa a tutte le famiglie di Cuba, negli ospedali, nelle istituzioni, nelle piazze pubbliche, dappertutto, segnando “una primavera della fede nell’isola”».
Papa Ratzinger riuscirà ad accendere una scintilla nell’intero popolo cubano, che ha voglia di libertà e comincia a chiederlo a viva voce? Per ora il timore di ritorsioni impedisce l’inizio di una più ampia “primavera cubana”.
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