15.12.2024

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Cultura
31 Gennaio 2014

Cultura

 

 

 

Scusate se ancora una volta insisto sull’importanza della cultura ma ho sotto gli occhi l’agenzia «Corrispondenza romana» dell’11 febbraio 2006 e quanto vi è riportato mi ha fatto venire il sangue agli occhi. Riassumo: intervistato dal settimanale «L’Espresso» (il 26 gennaio u.s.) per celebrare i trent’anni di attività del quotidiano «La Repubblica» (fondato il 14 gennaio 1976 da Eugenio Scalfari), il suo attuale direttore, Ezio Mauro, ha sottolineato l’importanza della battaglia culturale per il successo della guerra politica.
Egli ha affermato – con orgoglio – che il suo quotidiano «è stato un agente della modernizzazione» del Paese e che il suo successo (ricordo che «Repubblica» è il secondo quotidiano nazionale per copie vendute dopo il «Corriere della Sera», che non di rado raggiunge e talvolta supera) è dovuto al fatto di essere manifestazione e strumento «di un mondo più culturale che politico». La sua azione è stata principalmente «culturale», intendendo con questo termine la creazione di mentalità, tendenze e costumi di massa. Insiste Mauro: «Oggi la discussione sui grandi temi etici e culturali predetermina le scelte politiche. I giornali lo hanno capito, almeno alcuni». E fa l’esempio del quotidiano «Il Foglio», che conduce una battaglia culturale di segno opposto, dicendo che «su questo, la partita giornalistica è tra noi e loro». Si noti che non ha nemmeno preso in considerazione altre testate pur alla sua in linea di principio avverse come «Il Giornale» o «Libero» o «La Padania», che tifano per il centrodestra. «Avvenire», quotidiano dei vescovi, come appunto i vescovi non prende posizione tra destra e sinistra, diversamente, per esempio, dalle riviste «Famiglia Cristiana» e «Vita pastorale».
Tornando all’intervista di Mauro, egli a un certo punto afferma che, dell’importanza della battaglia culturale, «la Chiesa s’è accorta: ha scelto un papa filosofo e teologo, non un papa pastore». Personalmente penso che la Chiesa abbia eletto un papa teologo più per rimettere ordine in casa propria che per l’esterno; infatti, a questo tipo di “scoperte”, la storia insegna che la Chiesa di solito arriva buon ultima (penso, tanto per fare il primo esempio che mi viene in mente, al documento sul New Age, esternato solo quando il New Age era stato abbondantemente superato dal Next Age e quest’ultimo dal nichilismo tout court). Ne fa fede l’assoluta non incidenza sul piano della cultura (nel senso inteso da Mauro, che condivido) della pur enorme disponibilità mediatica del cattolicesimo italiano (televisioni, radio, stampa, librerie specializzate, case editrici, produzioni cinematografiche, intere congregazioni fondate apposta per la «buona stampa», eccetera).
Ma torniamo a Mauro, che aggiunge – e a ragione – che nemmeno il centrodestra pur al governo ha capito l’importanza della battaglia culturale: «Berlusconi ha perso la grande occasione di fondare una moderna cultura conservatrice in un Paese che non l’ha mai avuta. Eppure, così avrebbe trovato la vera immortalità». Interessante a questo punto l’ultima battuta riportata dall’agenzia; dice Mauro che «se nel Paese partisse una discussione sull’eutanasia, il centrosinistra non avrebbe la minima attrezzatura per affrontarlo; invece la destra prende a prestito i precetti della Chiesa, dotandosi di un pensiero forte e riconoscibile».
Così dicendo, Mauro ammette implicitamente che le migliori armi culturali del centrodestra si trovano nel bagaglio della dottrina cristiana. Purtroppo, la personalizzazione dell’intero centrodestra sul suo leader, e il controcanto fattogli dal
centrosinistra, che ha sempre concentrato i suoi sforzi per demonizzare la persona, così acuendo e cronicizzando la personalizzazione carismatica, hanno finito col distogliere del tutto il centrodestra dall’importanza della battaglia culturale, che non è mai stata nemmeno intrapresa. Basta vedere, per esempio, i giornali che lo sostengono: le firme migliori sono tutte concentrate sugli editoriali politici, laddove la famosa Terza Pagina, quella culturale, è affidata a redattori di secondo piano, alcuni dei quali, addirittura, potrebbero benissimo figurare anche su pubblicazioni di sinistra. Ben altro spessore hanno le Terzepagine di «Repubblica», «Corsera», «La Stampa», cioè i tre maggiori quotidiani nazionali, le cui «linee», tra l’altro, sono ormai indistinguibili.
Insomma, il direttore del giornale che ha «separato i fatti dalle opinioni» nel senso di trasformare anche i fatti in opinioni e, così facendo, ha più d’ogni altro contribuito a secolarizzare, laicizzare ed edonizzare la testa degli italiani dice chiaro e tondo qual metodo detto giornale ha usato per trent’anni; dice, ed ha ragione, che il metodo funziona; dice, ed ha ragione, che sono fessi tutti gli altri che non hanno fatto né fanno lo stesso. Quando, trent’anni fa, partì l’iniziativa, questo nostro popolo ancora considerava semplicemente aberranti certi fenomeni di costume che oggi accetta tranquillamente.
Oggi è normalissimo che la stragrande maggioranza degli italiani sia considerata «la minoranza dei cattolici». Si parla dei «cattolici» come se fossimo negli Stati Uniti, dove effettivamente sono minoranza. E se ne parla come se «normale» fosse la «laicità», cioè l’ateismo (o l’agnosticismo, anche se la differenza è solo bizantina). Una (ripeto, una) delle conseguenze è che siamo continuamente trascinati a votare in referendum in cui noi cattolici facciamo la parte di quelli che vogliono vietare qualcosa a qualcun altro, con gli imbarazzi che ne seguono; non è facile, infatti, spiegare perché siamo contro l’aborto, contro la fecondazione artificiale, contro i Pacs, contro le nozze gay, contro l’eutanasia, e via contrastando.
È una lunga guerra culturale ciò che ha fatto accettare come «normale» l’idea che ognuno ha il diritto di fare quel che gli pare se non dà (apparente) fastidio agli altri; ed ha fatto semplicemente sparire anche dal linguaggio il concetto di «bene comune». Autorità, responsabilità, dovere: se questi concetti evocano ormai cose negative nella testa dei più, e specialmente dei più giovani, lo si deve alla lunga guerra culturale che è stata condotta negli ultimi quarant’anni. Ed è stata una guerra realmente asimmetrica, perché l’avversario non hai mai neanche pensato a dotarsi dei mezzi (e degli uomini) per rispondere.
Prevengo l’obiezione: con un comitato estemporaneo al massimo vinci un referendum. Ma, se non parti alla riscossa, hai fatto solo perdere un po’ di tempo all’avversario.

 

 

 

 

IL TIMONE – N. 53 – ANNO VIII – Maggio 2006 – pag. 20 – 21

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