All’inizio degli anni Settanta, i miei coetanei non si appassionavano certo alle chiese, intese come edifici. Semmai, quelli che si dicevano “cattolici”, e che si interessavano all’architettura che si rifiutavano di chiamare ancora “sacra”, teorizzavano la rivolta contro il “trionfalismo preconciliare” e progettavano (e, purtroppo, talvolta costruivano…) capannoni in cemento armato a vista, garage, sale di incontro popolare, rigorosamente senza alcun segno cristiano all’esterno e spesso neanche all’interno. Una croce almeno sul tetto? Ma basta con simili violenze verso chi non è credente! Quel loro “scatolame edilizio”, era (dicevano) il modello anti-costantinano, povero per i poveri, democratico, sociale: altro che quei chiesoni costruiti da una Chiesa reazionaria che non aveva ancora fatto la scelta di classe!
Ebbene, giusto in quei tempi, io, che andavo per la mia strada, opposta a quella che l’ideologia corrente voleva imporre, programmai qualche giorno di vacanza, scegliendo tra le mete principali proprio la visita a un “chiesone”. E il più grande di tutti, almeno tra quelli in costruzione. Così, in due giorni di viaggio in auto, giunsi a Barcellona, ancora sotto il regime di Franco (sarebbe morto nel 1975) e non vidi praticamente nulla della città battuta dai turisti. Quasi tutto il mio tempo, infatti, lo passai all’interno del cantiere della Sagrada Familia. Ancora pochi, al di fuori della Spagna, sapevano qualcosa su questo “tempio espiatorio” che Antoni Gaudì voleva che fosse costruito solo con le libere donazioni della gente. Dunque, eventuali aiuti pubblici non sarebbero stati nemmeno accettati, se offerti. Comunque, che non fossero molti, allora, ad essere attirati da questo gigante incompleto lo testimonia anche un fatto che oggi (vedendo le folle cosmopolite che l’assediano) sembra impensabile. Il cantiere, cioè, era aperto e si poteva liberamente circolare ovunque, guardare, toccare, sostare, fotografare, sedersi sulle grandi pietre in attesa di essere messe in opera. Ricordo che su una di queste pietre mi sedetti, venuta l’ora di pranzo, per mangiare e bere, attingendo dallo zainetto che portavo sulle spalle. Intanto, scambiavo qualche parola con i muratori, anch’essi nella pausa per la comida. Mi emozionavo parlando con loro, perché le facce abbronzate, le mani callose, gli stracci sporchi di calce che avevano addosso, i fazzoletti in testa usati come copricapo contro il sole, le scarpe di corda, li mostravano proprio come Gaudì li aveva voluti. Un popolo, cioè, di costruttori di cattedrali, povera gente che si sacrificava per tirar su il più ricco, bello, imponente degli edifici. Per loro, le capanne; ma la più bella reggia possibile per la casa del Re dei Re.
Ovviamente, pensavo a quelle ore feconde, passate ad “impregnarmi” dell’arte e della fede del futuro (forse) beato Gaudì, quando Benedetto XVI ha consacrato l’altar maggiore della Sagrada Familia. Siamo ben lontani dalla conclusione dei lavori – le torri vertiginose dovranno diventare addirittura 18: un foresta di pietra – ma la navata maggiore è praticabile, finalmente l’eucaristia può essere celebrata in questo straordinario scrigno dove la genialità tecnica dell’architetto sfiora la follia del mistico. Ad accogliere il Papa, ecco schierati i leader politici della Comunità, sempre più autonoma, della Catalogna. Questa è retta da molto tempo da governi di sinistra, capeggiati dai socialisti, ma dove è presente anche l’erede del Partito Comunista, nella sua versione radicale barcellonese. Questi signori si coccolano la Sagrada Familia, ne hanno fatto l’emblema catalano, finanziano la pubblicazione di libri sull’edificio, dicono un gran bene di Gaudì, rimuovendo la sua fede cristiana ma valorizzando il più possibile il suo “patriottismo” regionale. E tutto questo perché – a differenza di 40 anni fa, quando vidi la basilica per la prima volta e nessuno se ne curava – l’architetto visionario non è più considerato un eccentrico, un curioso “tardo barocco”, ma è stato riconosciuto nella sua grandezza, al punto di diventare talmente alla moda che buona parte del turismo di Barcellona è attratto dal suo fascino. La città è bella, la sua posizione sul mare è affascinante, ma sono pochi i monumenti e, tra essi, la Sagrada Familia primeggia, è una calamita che attrae gente e, dunque, denaro. Fanno bene, dunque, i politici a trattarla con ogni onore, ad essere felici – malgrado i loro agnosticismi ed ateismi conclamati – che il Papa stesso sia venuto ad aprirla al culto: una ulteriore pubblicità mondiale, un’ulteriore spinta al volano turistico.
Tutti, però, fanno finta di non sapere che cosa abbiano combinato quei loro predecessori politici, quei rojos, quei “rossi”, di cui rivendicano orgogliosamente l’eredità. Nel 1936, il giorno dopo l’alzamiento di Franco e degli altri generali, i comunisti, gli anarchici ma anche i socialisti che erano al governo – allora come adesso – cominciarono subito la fucilazione dei cattolici e il rogo delle chiese e delle case religiose. I forsennati si precipitarono anche sulla Sagrada Familia dove, dieci anni dopo la morte di Gaudì, i lavori avanzavano, lentamente. Subito, furono fucilate sul posto sette persone, colpevoli di dirigere la Confraternita che coordinava la costruzione del tempio. Questo fu dato alle fiamme, ma i tentativi di distruzione andarono delusi perché l’edificio era tutto in pietra e si anneriva, ma non voleva prendere fuoco. Allora, ci si accanì contro le statue che decoravano il solo portale terminato dall’architetto defunto, spaccando tutto lo spaccabile. Ma quei rojos pensarono anche a rendere impossibile il futuro: dunque, se la presero con la baracca all’interno del cantiere dove Gaudì dormiva, mangiava e, soprattutto, lavorava giorno e notte a produrre elaborati, schizzi, schemi per la prosecuzione e il lontano completamento dell’opera. Consapevole che la vita non gli sarebbe bastata, aveva preparato quanto sarebbe servito a chi lo avrebbe sostituito nel magnum opus. La baracca era di legno, dunque almeno questa prese fuoco e tra le fiamme andò distrutto l’intero archivio, dunque l’eredità tecnica e artistica dell’architetto. Se, finita la guerra civile, si poté pensare a riprendere il lavoro, fu solo sulla scorta di qualche foto sbiadita di un grande modello in legno, costruito dallo stesso Gaudì, per mostrare come sarebbe stato il tempio terminato. Tra le cose su cui basarsi, ci furono anche i pochi appunti di una conferenza in cui il costruttore aveva spiegato agli amici che cosa avesse in testa davvero per quel gigante di pietra. Tutto qui ciò che è sfuggito alla furia fanatica delle “sinistre”.
Questa, dunque, la paradossale situazione: se gli antenati politici degli attuali, compiaciuti, governanti “progressisti” catalani avessero potuto attuare interamente il loro piano di distruzione, dove ora sorgono quelle torri colossali ci sarebbe soltanto un prato o un condominio. In ogni caso, un risultato quei loro colleghi di 70 anni fa lo hanno ottenuto: i danni sono stati riparati, la costruzione è ripresa, ma, in fondo, “alla cieca”. L’incendio di tutti i progetti, la distruzione di tutti i modelli, ha fatto sì che gli architetti che si sono succeduti hanno cercato di lavorare “alla maniera di Gaudì”, tentando di immaginare che cose avrebbe fatto il Maestro. Hanno dato il loro meglio, ma il magico tocco di quella fantasia visionaria non c’è più e mai più potrà esserci. Posso dirlo? Vedendo, nella diretta tv, quei signori nei loro abiti da cerimonia che mostravano compiaciuti al Papa la Sagrada come se fosse opera e merito loro, vedendo quei signori che rivendicano orgogliosi la memoria dei comunisti e socialisti del 1936 e che ora gongolano per il ricchissimo turismo che porta quell’edificio; ebbene, vedendo tutto questo, le mani un poco mi prudevano. Una delle occasioni, cioè, in cui avevo nostalgia della sola forma di terrorismo che approvi e che, quando proprio ci vuole, praticherei volentieri: il lancio di soffici torte alla panna su certe facce di bronzo…
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Ma, per stare in tema. Questa estate sono tornato a Cluny. Ne ho già parlato, in questa rubrica: fu lì il vertice del vandalismo della Rivoluzione francese, fu lì uno dei maggiori crimini non solo contro la religione ma contro l’arte, la cultura, la storia. La più grande chiesa della Cristianità prima della ricostruzione di San Pietro, la più vasta e sublime raccolta di scultura romanica, la più possente delle strutture architettoniche europee. Di tutto questo non è restato che un campanile minore, su 12 che svettavano verso il cielo. La Rivoluzione non solo cacciò i monaci e trasformò in stalle e magazzini il grande monastero, ma vendette a privati, come cava, quella meravigliosa montagna di pietre e di marmi. Pur usando l’esplosivo, per demolire il tutto ci volle più tempo che per la costruzione. Ebbene, in questa mia ultima visita a Cluny ho trovato una novità: un gran fervore di opere, scavi, demolizioni, restauri, per cercare qualche briciola sopravvissuta della bellezza e della grandezza distrutte con metodo, per anni, per mero odio anticristiano. Ma anche qui, una sfacciataggine “alla catalana”: il governo ha predisposto grandi cartelli, scaglionati in tutta la cittadina, che annunciano questi grands travaux. I cartelli hanno una vistosa scritta, République française, sotto la quale sta il profilo di Marianne, uno dei simboli rivoluzionari. E, ancora sotto, in grande, la “Trinità giacobina”: liberté, égalité, fraternité. Insomma: siamo alle solite. Coloro che tentano di riparare al disastro, sono gli orgogliosi eredi dei distruttori.
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Il 2 dicembre, il Corriere della Sera offriva in allegato, al prezzo davvero esiguo di 1 euro, un libro con una buona antologia dei Pensieri di Pascal. Sapendo quanto abbia contato per me questo autore, il direttore stesso mi ha chiesto di farne una prefazione. La ripubblico qui: credo che potrà interessare a chi non ha visto il Corriere e potrà magari invogliarlo ad approfondire questo caposcuola dell’apologetica moderna. Pascal, in effetti, è maestro per tutti, ma in particolare per noi che cerchiamo di ritrovare l’accordo tra fede e ragione.
Questo non è un libro. Questo è un progetto di libro. Sono gli appunti – scritti di getto, su fogli di carta casuali – per una grande Apologia del cristianesimo. Ma l’aspirante autore si congedò a 39 anni, di cui gli ultimi tormentati da malattie e dolori che impedivano ogni lavoro. I dotti d’Europa erano certi che quel Blaise Pascal – quell’autodidatta dal genio effrayant, spaventevole, come dicevano – sarebbe stato ricordato dai posteri. Ma per la sua opera di scienziato precocissimo, che aveva risolto problemi di matematica, di geometria, di fisica sino ad allora insoluti. Nessuno sospettava che quegli opuscoli in latino sarebbero restati, certo, nella storia delle scienze, ma per pochi specialisti; e che la gloria imperitura sarebbe venuta dai foglietti in un limpido francese che furono trovati legati con lo spago in un cassetto. Un altro foglietto fu scoperto, e fu questo pure una sorpresa. Datata con precisione da matematico («L’anno di grazia 1654, lunedì 23 novembre, giorno di san Clemente papa e martire e altri al martirologio, vigilia di san Crisogono, da circa le dieci e mezza della sera sino a circa mezzanotte e mezza»), questa era la cronaca, sconvolta e sconvolgente, del decisivo incontro-scontro col Cristo. Quel mémorial, come lo chiamarono gli editori, ha nella prima riga, in lettere maiuscole, una sola parola – FEU, fuoco – sotto a una croce. Si scoperse che, ad ogni cambio di abito, Blaise stesso scuciva e ricuciva il foglio sotto la fodera, dalla parte del cuore. Non lo si dimentichi: ognuna delle righe di queste Pensées è stata scritta stringendo al petto uno scritto che fissa in diretta il momento dell’irruzione della fede («Gioia, gioia, pianti di gioia, certezza, certezza, pace») e termina con una invocazione al Cristo che è un programma per la vita terrena, ma nella prospettiva di quella eterna: «Che mai dimentichi le Tue parole!». Proprio per prepararsi al passaggio verso l’Eterno, aveva venduto la bella biblioteca, destinando ai poveri il ricavato e tenendo per sé unicamente una Bibbia e le opere di sant’Agostino. E solo l’opposizione dei familiari impedì che venisse rispettato il suo desiderio: essere trasportato all’ospedale degli incurabili, per morire non nella confortevole casa da piccola nobiltà benestante, ma nelle orride corsie per i miserabili di Parigi.
Il lettore, dunque, sia rassicurato. Questi appunti sono stati vergati non da un professore che faccia mostra di imparzialità o da un teologo che abbia trasformato in mestiere la sua ricerca del Sacro. Sono la testimonianza di un credente che ripete una preghiera: sia diminuita, in lui, «la distanza tra il pensiero e la vita», per far sì che il Vangelo non sia una dottrina, una teoria, ma diventi sangue e carne, in ogni istante, in ogni gesto. Prima ancora che per un lettore, queste note sono state scritte per l’autore. Come tutti, Pascal può essere respinto nelle sue idee – Voltaire lo detestava, perché quel genio prodigioso smentiva l’equazione tra ignoranza e fede, tra cristianesimo e cretinismo –, ma nessuno ha potuto o potrà mai mettere in dubbio la sincerità della sua esperienza. Come scrisse un antico: «A ogni idea si può sempre opporre un’altra idea. Ma chi potrà confutare una vita?».
C’è chi si rammarica per la morte prematura, che ha impedito la costruzione di quella sorta di cattedrale del pensiero che sarebbe certamente stata la grande Apologia del cristianesimo. Ma la Provvidenza sa quel che fa: l’opera sarebbe stata imponente, tutto vi sarebbe stato ordinato con il rigore di un trattato. Avremmo avuto un volumone in più, ma avremmo perso l’immediatezza, la sintesi folgorante, l’erompere dell’emozione, della gioia e dello sdegno, nelle schede buttate giù a qualunque ora e in qualunque luogo, spesso nelle notti d’insonnia, come mente e cuore dettavano. È la frammentarietà di questi pensieri che ne ha fatto la forza e il fascino che sarebbero mancati alla secchezza del trattato. Nelle righe nervose, negli aforismi e nelle riflessioni folgoranti, si accendono flash che non hanno ancora finito di illuminarci. Quest’uomo dell’età barocca testimonia di una modernità stupefacente, affaticandosi a convincere agnostici ed atei, cioè personaggi quasi introvabili in quell’epoca ancora di cristianità e che soltanto nei secoli successivi sarebbero divenuti folla.
Ma l’accademico di Francia Jean Guitton intuiva un’altra ragione in quel congedo a 39 anni: «Se fosse vissuto ancora, si sarebbe staccato dal giansenismo radicale (aveva orrore di scismi ed eresie) e avrebbe moltiplicato le opere di carità. Celibe e senza figli, sarebbe probabilmente entrato in qualche abbazia o certosa. Sarebbe morto, così, in fama di santità e noi avremmo, nelle chiese della provincia francese, un altare laterale dedicato a un saint Blaise. Buon per lui, ovviamente, ma non per noi, che avremmo perduto la forza di questo laico che parla ai laici, di questo protagonista brillante della Parigi del Grand Siècle, di questo mistico che portava il cilicio e digiunava ma che inventò, costruì, pubblicizzò la prima calcolatrice della storia e immaginò il primo sistema di omnibus, di carrozze pubbliche a prezzo fisso». Una fede, la sua, di un cattolico ortodosso – malgrado le dispute su Giansenio e le polemiche con i Gesuiti – ma nella quale nulla sa di clericale o di untuosamente edificante. Una fede virile e ragionata, dove c’è ampio spazio anche “pour les raisons du coeur”, ma che mai scade nel sentimentalismo o nelle invettive contro “i malvagi increduli”. Con essi, anzi, è solidale perché, come egli stesso nella prima giovinezza, hanno ragione nel loro scetticismo: ma solo perché guardano al Vangelo dalla prospettiva sbagliata. Il vero e il falso dipendono dal point de vue.
Il suo è, innanzitutto, un apostolato ad extra, verso coloro che non fanno ancora, o non fanno più, parte della Chiesa. Non a caso, tra quelli che hanno curato l’edizione e la traduzione delle sue opere, i laici (spesso laicisti, agnostici e persino atei) sono più numerosi e appassionati degli ecclesiastici. A chi si interroga sul segreto di questa attrazione, che è giunta sino a noi e che ha cambiato tante vite, Pascal propone una risposta. Dice, infatti, una nota sul metodo che avrebbe voluto seguire per il libro progettato: «Crederanno di trovare un autore. E, invece, troveranno un uomo». Un uomo che «cerca gemendo », amando e ragionando, quale sia il significato di una vita che, senza la fede in un Salvatore, non è che «una avventura inutile» che termina, inevitabilmente, «con qualche palata di terra sulla testa».