Nel 1918 scompaiono gli imperi russo, tedesco, austroungarico e ottomano. Nascono gli Stati nazionali, segnati dal reciproco rancore. Il virus nazionalista porta alla «guerra civile europea» e alla Seconda guerra mondiale
Dopo la Rivoluzione del 1789, l’esercito di Napoleone aveva portato in Europa lo spirito del nazionalismo, cioè un amore assoluto per la propria nazione che mirava a scardinare gli Antichi Regimi impregnati da un senso comune cristiano e da un buon senso che rifuggiva le ideologie. Dopo il razionalismo del Settecento illuminista, nell’Ottocento mutarono anche i riferimenti culturali ed esistenziali. La letteratura, l’arte, la politica riscoprivano il mito romantico di un passato da idealizzare, e la ragione lasciava il posto al sentimento. Da qui il sentimento nazionale, l’amore assoluto alla patria, il nazionalismo appunto.
Ma questo nuovo amore per la patria non aveva niente a che fare con l’amore per i propri avi, per la terra dei padri. Si trattava di un virus, un nuovo virus che penetrava dentro un corpo sociale per cercare di separare dalle sue radici chi si lasciava infettare.
L’Europa passava dall’illuminismo al romanticismo, dall’universalismo della “Dea Ragione” celebrata sugli altari della Parigi infuocata dall’ardore dell’ideologia rivoluzionaria, al culto della nazione romantica, per la cui liberazione dal giogo del tiranno si doveva persino sacrificare la vita.
Lo storico Federico Chabod (1901- 1960) ha descritto bene questo virus nel suo libro L’idea di nazione: una malattia dello spirito che sostituisce la religione, che prende il posto della liturgia cattolica con una propria liturgia profana, ma efficace a sollevare soprattutto studenti e intellettuali. Si comincia così a morire per la patria come i primi Cristiani morivano per Cristo, a sacrificarsi per i propri concittadini come un tempo i Cristiani nelle catacombe cercavano di salvaguardare madri e bambini dal martirio sostituendosi a loro.
Le ideologie cambiavano ma non i loro obiettivi. I nemici erano sempre i soliti due, la Chiesa e l’Impero, l’autorità religiosa e quella politica. Entrambe sono il segno visibile di un ordine politico che ricorda che Cristo è il Signore della storia.
Come spiega questo dossier, né la cristianità occidentale né l’impero bizantino sono state società esenti dallo scandalo del male, anzi. Tuttavia, hanno testimoniato che l’azione evangelizzatrice che parte dal mistero dell’Incarnazione può arrivare ai cuori degli uomini, ma anche alla cultura dei popoli e alle strutture politiche. E hanno altresì dato testimonianza per molti secoli che popoli diversi, per religione e cultura, possono convivere nel comune rispetto dei “principi non negoziabili” e sotto la guida autorevole e riconosciuta di una famiglia. La scomparsa degli imperi, dopo la fine della Prima guerra mondiale, ha portato alla nascita di Stati nazionali, dove a una etnia corrispondeva uno Stato e le minoranze erano soltanto tollerate, nel migliore dei casi. Gli imperi non avevano preservato il mondo dall’odio e dalle guerre, ma queste erano sempre state circoscritte e mai degenerarono come nei due conflitti mondiali del Novecento, autentica apoteosi della barbarie.
Il “santo impero”: un sogno, un ideale che non deve mai farci dimenticare che viviamo in una “valle di lacrime”, come recita la Salve Regina, e che la Gerusalemme celeste non è cosa di questo mondo. Ma un sogno che, anche oggi, può migliorare l’impegno politico per costruire «una società a misura d’uomo e secondo il piano di Dio» (Giovanni Paolo II), convinti che è esistito un tempo in cui «la filosofia del Vangelo governava gli Stati» (Leone XIII).
IL TIMONE N. 119 – ANNO XV – Gennaio 2013 – pag. 46
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