Due rapinatori uccidono un benzinaio. Uno di loro, roso dal rimorso, si costituisce.
L’angoscia di avere sbagliato, il senso di colpa, il desiderio di espiazione: categorie che la cultura dominante vuole espellere dall’orizzonte umano, ma che resteranno vive finché ci sarà l’uomo.
Tra la fine di novembre e la metà di dicembre dell’anno scorso giornali e televisioni di tutta Italia hanno dato ampio risalto all’omicidio di un benzinaio di Lecco, Giuseppe Maver, di 60 anni, freddato con un colpo di rivoltella durante un tentativo di rapina che, peraltro, è fallito. Di motivi per cui i giornali nazionali si occupassero tanto del caso ce n’erano a bizzeffe.
Intanto, il fatto ha dato la stura a una delle solite polemiche politiche, perché un ministro leghista, Roberto Calderoli, appena saputo del delitto ha istituito una taglia sugli assassini, aggiungendo l’infelice frase “Nessuno può toccare un padano”. Si è aperta quindi l’immancabile discussione sul linguaggio colorito di certi politici, e sull’utilità o meno dell’istituzione di una taglia.
Le discussioni si sono poi moltiplicate quando si è saputo chi erano i due colpevoli dell’omicidio: due ragazzi, uno di 18 e uno di 17 anni. Due ragazzi italiani, insomma non due immigrati; e, per giunta, due italiani di famiglie tutto sommato normali: certo non figli di gente benestante, ma neppure poveri. Due ragazzi oltretutto incensurati, figli di incensurati.
Ecco dunque che si è scatenato il consueto giro di pareri di psicologi, sociologi, educatori, esperti di ogni tipo in servizio effettivo permanente. Tutti pronti a spiegarci che la colpa è della società, magari anche della televisione: tutti pronti a dire che quanto è successo è causato dal mito del denaro facile, del guadagno senza fatica, perché questi ragazzi (uno dei quali lavorava regolarmente) avevano in testa chissà quale motorino, chissà quale vacanza, chissà quale telefonino di ultima generazione, e per ottenere rapidamente l’oggetto dei loro futili desideri non hanno esitato a rapinare e a uccidere.
Ancora, la vicenda ha provocato una coda di polemiche sulla sicurezza. C’è stato chi ha dato esplicitamente la colpa al Governo: pur di ridurre demagogicamente le tasse – questa l’accusa – l’esecutivo non ha esitato a tagliare i fondi per la spesa pubblica, comprendendo nella spesa pubblica la polizia. Insomma, se c’è stato un delitto, hanno detto autorevolissimi uomini politici dell’opposizione, è perché la polizia non ha più i mezzi per prevenire il crimine.
Può benissimo darsi che, in tutte queste discussioni, ci sia stato anche del vero. Colpisce peròla miopia con la quale la stragrande maggioranza dei giornali e delle tv ha guardato a questa storia. Nella quale storia, volendo guardare i fatti con onestà e realismo, l’aspetto più importante, quello per il quale valeva la pena di spendere qualche parola, è un altro.
Il fatto più importante è che questo giallo dell’omicidio del benzinaio di Lecco si è risolto solo perché uno dei due ragazzi – per la precisione il più giovane, quello di 17 anni – dopo quasi un mese ha deciso di andare a costituirsi. I carabinieri e il magistrato, dando notizia degli arresti durante la conferenza stampa, hanno insistito sul fatto che le indagini erano comunque arrivate a “chiudere il cerchio” (come si dice in gergo), che i due ragazzi erano ormai nella rete, si sentivano braccati, eccetera eccetera. Sottolineature dovute probabilmente alla necessità di difendere il proprio lavoro; sottolineature probabilmente in parte fondate: ma che non cambiano la sostanza dei fatti. Dal 25 novembre, giorno dell’omicidio, all’11 dicembre l’omicidio è rimasto impunito, senza l’ombra di un indiziato. E l’11 dicembre questo ragazzo di 17 anni ha detto basta.
Il giallo, dunque, si è risolto non grazie a una taglia, non grazie a una soffiata, non grazie al Maigret di turno, ma grazie a sentimenti politicamente scorrettissimi: la consapevolezza di avere sbagliato, il rimorso, il desiderio di espiazione. Categorie che la cultura dominante vorrebbe espungere dall’orizzonte umano, ma che continuano ad essere vive, e resteranno vive finché ci sarà l’uomo.
Si ha un bel dire che le colpe o i meriti sono della società: ma la realtà è che ogni essere umano ha in sé la capacità di scegliere tra il bene e il male, e quando sceglie il male – se la sua coscienza non è in sonno – resta dentro qualcosa che divora. Eppure questo aspetto, questo rimorso che ha portato quel ragazzo a destarsi e tornare in vita, è stato ritenuto una “non notizia”. Così come è passata completamente inosservata la straordinaria figura della madre del diciassettenne che si è costituito. E’, costei, una povera donna, vedova da anni, che per campare faceva le pulizie in una scuola di suore. Si era accorta che, da quel giorno dell’omicidio, suo figlio era cambiato. Non rideva più, non mangiava, passava le giornate sul letto: in poche parole, non viveva più. Da madre che tutto coglie, ha cominciato a sospettare. E quando il figlio le ha confessato l’atroce verità, gli ha detto: alzati, andiamo dai carabinieri.
C’è da immaginare il volto di questa donna, vedova, che accompagna il suo unico figlio in caserma. C’è da immaginare quel che avrà avuto in testa durante quel tragitto. Avrà pensato al futuro di solitudine che l’attende, avrà forse chiesto al Cielo “perché ancora a me?”. Ma ha tirato diritto. Donna di fede, ha capito che quel suo unico figlio che era morto stava ora tornando in vita.
Storie che non meritano due colonne sul giornale, ma che, grazie a Dio, accadono ancora oggi.
IL TIMONE – N. 41 – ANNO VII – Marzo 2005 pag. 18-19